MOSER fuga nella bufera

QUELLA NOTTE. Su un aeroplanino traballante, dopo il trionfo del '77 in Venezuela QUELLA NOTTE. Su un aeroplanino traballante, dopo il trionfo del '77 in Venezuela MOSER Fuga nella bufera EPALU' RANCESCO Moser, ciclista professionista molto professionale, passò una parte - l'ultima - della notte più importante della sua vita, quella fra il 4 e il 5 settembre 1977, fra una domenica e un lunedì, sdraiato sul pavimento della cabina di un aereo dell'Alitalia, viaggiando da Caracas a Roma. Una parte di una notte lunghissima, cominciata nel pomeriggio a San Cristóbal, nel Venezuela confinante con la Colombia, una piccola città piena di oriundi italiani, esattamente come ogni posto del mondo: quando Moser divenne campione del mondo era pomeriggio in Sud America e, per via dei quattro fusi orari, già notte in Italia. Quando Moser tornò in Italia, a Fiumicino, stava già cominciando la notte fra il 5 e il 6 settembre: perché l'aereo da Caracas era partito con sette ore di ritardo, nell'alba venezuelana e già nel pieno mattino italiano. Francesco Moser, classe 1951, nacque come grande corridore quella notte del 1977 fra il Venezuela e l'Italia, smise di essere il fratello promettente di Aldo che correva con Bartali e Coppi e che era riuscito a indossare la maglia rosa soltanto a fine carriera, smise anche di essere uno dei fratelli Moser, visto che anche Enzo e Diego facevano i ciclisti. Da quella notte dicendo Moser anzi Mosèr si disse soprattutto di lui, di Francesco. Anche Aldo il patriarcone di famiglia venne appiattito, le sue pedalate sembrarono eseguite per indicare la strada al fratello fuoriclasse. Lui, Francesco, non si accorse assolutamente del momento storico vissuto dal proprio personaggio: «Ero pieno di freddo raccolto nella gara, specie negli ultimi chilometri sotto un semiuragano, di paura residua di cose ciclistiche e no che mi erano accadute prima e dopo il traguardo, di affanni postcorsa, di mezzi terrori in volo fra San Cristóbal e Caracas». I ciclisti smitizzano tutto, Moser nella conversazione non raccoglie mai l'invito a un minimo di epopea di se stesso. «In corsa foro all'ultimo giro, ero in fuga con il tedesco Thurau, cambio della bicicletta in pochi secondi, lui non ce la fa ad andarmi via, lo riprendo e faccio appena in tempo a preparare la volata, contro quello lì che è un bel velocista. La pioggia era proprio tanta, il cielo era scuro, la strada nerissima, se proprio vogliamo dirlo era già notte anche lì. Ho vinto bene, facilmente, mica ho potuto fare un po' di festa subito dopo il traguardo, perché sul bagnato la frenata non mi è riuscita e per non andare a schiacciarmi contro la gente ho dovuto sbandare, sono caduto, ho picchiato la testa contro una staccionata in legno, mi sono fatto male al sopracciglio, sangue, medicazione, cerotto». Ricordiamo bene quel film frenetico, ridolinesco. Il commissario tecnico Alfredo Martini, uno che aveva corso con Bartali, con Coppi e con Aldo Moser giovanotto, aveva detto a Fran cesco, dopo la vittoria, la frase più importante: «Scappiamo via, sennò si muore affogati di pioggia». Ma c'era la premiazio ne, con «Fratelli d'Italia» canta to dagli italiani di San Cristóbal e da quelli, pochi, arrivati appo sta dal Bel Paese, c'era il rituale dell'antidoping, e per fortuna che l'umidità fa orinare spesso, e c'era da cambiare la divisa bagnata, la tuta che, indossata subito dopo l'arrivo, era anch'essa piena d'acqua. Francesco andò nella casa, vicina al traguardo, che un industriale torinese sfortunato in Italia e celebre in Messico, Giacinto Benotto, aveva affittato e messo a disposizione della squadra, lì si vestì in borghese («Era una divisa ufficiale, ma andava bene in tante occasioni, insomma camicia giacca cravatta pantaloni stirati bene») e saltò su un'auto preparata da giorni per quel minirally, lui e Martini, gli altri che non avevano un titolo mondiale da celebrare se n'erano già andati. «Bisognava arrivare in tempo all'aeroporto di San Cristóbal, c'era un aeroplanino a elica a nostra disposizione per arrivare all'aeroporto di Caracas, dove ci aspettava la coincidenza Alitalia: pochi posti, chi ce la faceva ad arrivare saliva senza neanche il biglietto, ricordo che rimasero a terra alcuni industriali della bicicletta, sponsor e amici, salirono pochissimi giornalisti italiani. Chi perdeva quell'aereo era condannato a raggiungere Caracas il giorno dopo e aspettare due-tre giorni un buon volo per l'Italia, molti patirono quella condanna e probabilmente mi maledirono, perché avevo vinto e avevano dovuto scrivere di più; mettendoci più tempo». La trasferta venezuelana era nata male, con i professionisti della strada (gli azzurri di altre categorie e specialità erano arrivati prima) bloccati a Caracas, prima di imbarcarsi per San Cristóbal, dal ritrovamento di una pistola fra i bagagli, forse una burla idiota. Poi la prima notte a Caracas, anzi a Maiquetia dove sta l'aeroporto, sul mare, mentre la metropoli è lassù fra le montagne e le nebbie, non tutti avevano avuto un letto, qualcuno aveva dormito sulle sdraio intorno alla piscina, fra zanzare grosse come Hercules e veloci come Boeing. Né San Cristóbal era il paradiso: caldo umido, strade per gli allenamenti infestate da automobilisti e motociclisti pazzi, uno dei nostri, Baronchelli, travolto e ferito, e poi la settimana prima della gara spesa senza guizzi, per gli atleti pedalate e spionaggio degli avversari, per i non atleti le visite agli strepitosi bordelli locali, pieni di carne colombiana, oppure la gita di mezza giornata in Colombia passando per San Antonio, un paesone trasformato in freeshop per chissà quale mistero fiscale. Il giorno prima di Moser c'era stata l'assegnazione del titolo mondiale dei dilettanti, aveva vinto un italiano, Claudio Corti, peggio per lui visto che, a meno di chiamarsi Eddy Merckx, quella maglia iridata aveva sempre portato sfortuna, nel senso che nessuno dei vincitori aveva poi fatto una grande carriera professionistica. Corti era già in Italia quando Moser vinceva. Nel ciclismo di Aldo il vincitore di una maglia, rosa o gialla o iridata, obbligatoriamente la teneva addosso la notte dopo la conquista, e se nella cerimonia si era bagnata per pioggia o sudore ancora fuoriuscente o lacrime di gioia, la arrotolava e se la teneva accanto. Francesco non ricorda neppure dove la mise per il viaggio, «credo nel fondo della borsa che tenni con me in aereo». Aveva già una maglia di campione del mondo, quella conquistata l'anno prima a Ostuni, Puglia, nella prova di inseguimento. Però Ostuni era stata per lui soprattutto la città della delusione, secondo nella prova su strada, dietro al belga Maertens, e secondo nel ciclismo è peggio che ultimo. «A casa avevo anche sette maglie gialle, portate al Tour de France in una settimana da capoclassifica, per molti anni nessuno dei nostri mi ha imitato, e poi una maglia tricolore». Uscito dal film frenetico di San Cristóbal, aeroporto compreso, Moser con i fortunati dell'aeroplanino si trovò dentro una bufera molto più grande di quella che aveva lavato con la pioggia e visitato con il vento i suoi ultimi chilometri prima della vittoria. «Un ballo terribile, da aver paura. Ero stanchissimo, ma non riuscivo proprio a dormire. Guardavo l'ora, mi dicevano che in Italia erano più avanti, quattro ore più di noi, erano già nell'alba, pensavo ai miei che dormivano nella casa di Palù, non avevo avuto il tempo di telefonare a nessuno, decidevo che dormire era come sta¬ re in qualche modo con loro, facendo la stessa loro cosa, ma l'aereo sobbalzava, scricchiolava, andava su e giù nell'aria co me una barca sulle onde del mare in tempesta». Caracas anzi Maiquetia nella notte, un po' di evviva da quelli dell'Alitalia, applausi anestetici prima di far sapere che l'aereo di bandiera era in ritardo, sette ore di attesa, febei soltanto giornalisti che potevano inviare con una certa calma i telex del giorno dopo. «Stava venendo fuori uno schifo di prima notte dopo la vittoria, ero così arrabbiato che neanche lì, sulle poi trone della sala d'attesa, riusci vo a dormire un po'». C'era fra gli azzurri un ventenne che ave va esordito in Nazionale, peda landò bene, e che diceva ai gior nalisti: «Fra qualche anno tocca a me vincere il Mondiale». Si chiamava Giuseppe Saronni qualcosa in lui diceva che non si trattava di pazzia o di presun zione. Un altro azzurro sacra mentava in toscano, era Franco Bitossi, terzo, cinque anni pri ma secondo per un niente dietro a Marino Basso, uno di quell: con la jella permanente, morsi cati dalla vita, e infatti adesso ha una grande barba e fa il pre dicatore contro la vanità per le campagne intorno a Empoli. «Le ore a Caracas furono ter ribili, però riuscii a telefonare casa». Casa Moser a Palù di Gio vo nel Trentino, la vasta fami glia con mamma Cecilia, morta pochi mesi fa, e nell'ordine i figli: Aldo, Gustavo, Claudio, Enzo, Annalucia, Diego, Giacinta, Francesco, Gabriella, Alferio. Il padre Ignazio era morto di ictus nel 1964, Aldo aveva preso le re dini, faceva il corridore e il contadino, pedalava e vendemmia va, il vino dei Moser adesso è una piccola industria. Aldo aveva visto in Francesco il campio ne e aveva deciso che il piccolo non doveva lavorare nei campi, doveva fare il dilettante in Toscana, dove si impara il ciclismo più vivo. «Grande famiglia, la mia, e dovrebbero esserci anche Rita e Anna, mie sorelline, ma se ne sono andate bambine, una uccisa da un'auto l'altra dalla poliomielite». Se ne è andato anche Claudio, ma nel senso che è partito per una vita di frate francescano, cambiando il nome in Leopoldo, facendo il sacerdote a Boston e a Toronto, tornando in Italia poche volte, una per sposare, nel 1980, Francesco a Carla, anche lei si capisce residente a Palù, adesso con tre figli, Carlo e Francesca e Ignazio. Avanti nella notte, era ancora buio quando si partì da Caracas, «dopo tante ore di cui non volli ricordare nulla». Il sonno arrivò, invadendo Moser, sull'aereo per Roma: ma i campioni allora viaggiavano in classe turistica, e non c'erano posti liberi per costruire un minimo di letto. «Così approfittai del fatto che il comandante prima, il personale di bordo poi mi avevano fatto le congratulazioni, per prendermi il permesso di sdraiarmi per terra, davanti a un portellone dell'uscita. E finalmente mi addormentai. Non ricordo se feci sogni di gloria, io non sogno quando sono stanco. Ricordo che a Fiumicino, quando ormai cominciava la sera del 5, fui quasi stupito nel trovare gente sotto la scaletta dell'aereo, gente che mi applaudiva, e tanta ce n'era al di là dei vetri della sala arrivi. Vidi Teofilo Sanson il mio sponsor che si metteva contro il vetro schiacciandosi come una decalcomania. Mi abbracciò e mi portò subito a mangiare qualcosa in un bar con trespoli intorno al bancone, poi dovetti prendere un aereo per Milano, il giorno dopo dovevo gareggiare a Dalmine, non ricordo più quando riuscii finalmente a tornare a Palù, per raccontare a tutti come era andata, anzi per dire a tutti che avevo in testa una bella confusione». Francesco aveva 26 anni. Nel Mondiale dell'anno dopo in Germania era il favorito, si fece uccellare in volata dall'olandese Knetemann, che molti ritenevano avversario docile e che invece prese meglio il vento del Nùrburgring. Lo slancio di San Cristóbal durò comunque a lungo. Per far nascere un altro Francesco Moser ci volle Città del Messico, gennaio del 1984, in cinque giorni due primati del mondo dell'ora (battuti solo il mese scorso, per due volte), una terza giovinezza, e in primavera arrivarono finalmente la Milano-Sanremo e il Giro d'Italia, mai vinti prima. E che Italia c'era, Francesco, mentre tu facevi quella bella cosa a San Cristóbal? «Non sapevo niente, in una telefonata mi dissero che era fuggito Kappler, e per noi che pensavamo in quei giorni soltanto alla gara mondiale poteva essere un ciclista tedesco in qualche circuito italiano. A noi ciclisti insegnavano molto presto che dovevamo disinteressarci, nei limiti si capisce del possibile, del mondo intorno, perché il nostro sport è fatto soprattutto di concentrazione, anzi di sacrificio che si ottiene con la concentrazione. Si aggiunga che i contadini hanno un senso, un sentimento diverso degli eventi, delle cose, a me hanno insegnato che una tragedia è una grandinata sulle vigne, non un battello che va a fondo». E anche la felicità è da filtrare: quella notte, felicità fu poter finalmente dormire, sul pavimento dell'aereo. «Molti giornalisti mi maledirono: a causa del mio titolo mondiale avevano dovuto scrìvere di più, e così erano rimasti a terra» «Il viaggio a Caracas fu un ballo terribile. Sebbene stanchissimo, non riuscii a dormire» «Classe turistica Alitalia, finalmente potei riposare. Sdraiato sul pavimento» «Chiperdeva quel volo era condannato a restare 2-3 giorni nel diluvio di San Cristóbal» Nella foto grande Francesco Moser in azione. A sinistra, taglia il traguardo di San Cristóbal, nel '77, e si laurea campione del mondo. Sotto Giuseppe Saronni Sopra Francesco Moser con la moglie, a lato in una foto del '71 con la maglia della nazionale dei dilettanti A sinistra Fausto Coppi, una leggenda del ciclismo