«La montagna è un agguato continuo» di Alberto Papuzzi

«La montagna è un agguato continuo» «La montagna è un agguato continuo» Le guide: impossibile controllare tutti i rischi TRA LA GENTE DELLA VALLE COURMAYEUR DAL NOSTRO INVIATO La montagna uccide. Valligiani e villeggianti se lo ripetono, sotto il sole pomeridiano, mentre nella sala congressi dell'azienda di soggiorno i responsabili del soccorso alpino raccontano la disgrazia. Gli otto alpinisti intrappolati come topi sotto i ghiacci del seracco cancellano l'illusione che l'alta montagna sia stata addomesticata dal progresso tecnico e sportivo. Quando si vedono i free climbers arrampicare in calzoncini sullo storico granito del Grand Capucin, i «Giorni grandi» di Walter Bonatti sembrano appartenere a un altro mondo. Deltaplani, parapendio, elicotteri, funivie, rifugi superconfortevoli: la montagna pericolosa, la montagna crudele era diventata un pallido fantasma. Ma non è così. «La morte in montagna è qualcosa che dobbiamo saper accettare - dice Ruggero Pellin, presidente delle Guide di Courmayeur -. La morte fa parte della vita di un alpinista. E' pazzo chi dice che andare in montagna non comporta più grandi rischi. E' una mentalità che nasce solo da una mancanza di cultura alpinistica. Ma questa espressione, la montagna uccide, a me che in montagna ci vivo non piace. La montagna non è assassina: semplicemente non si può controllare ogni rischio». «E' chiaro che negli Anni Cinquanta e Sessanta si rischiava di più - dice Walter Griv 1, guida per venticinque anni -. Allora sulla normale delle Grandes Jorasses ogni anno ci lasciava le penne qualche cordata. Come sulla Tour Ronde, come sulla Brenva. Adesso gli alpinisti hanno a disposizione attrezzature migliori e informazioni meteorologiche, ma il pericolo oggettivo, la cosiddetta fatalità non si possono eliminare». Otto morti, in una scalata sul Bianco, nessuno li ricorda. Neppure Francois Thomasset, che con i suoi ottantatré anni è il decano delle guide valligiane. Sono le proporzioni della disgrazia che rimettono violentemente in discussione il significato e i problemi dell'alpinismo. In mattinata si era addirittura sparsa la voce che il seracco avesse abbattuto il Rifugio Boccalatte, da cui le cordate erano partite. Nello scorso decennio c'erano stati quattro morti sulla parete Nord della Tour Ronde, ma quanto accaduto l'altra notte riporta alle emozioni vissute ai tempi della terribile tragedia del Pilone centrale di cui Bonatti fu eroico protagonista. «Reposoir» si chiama, per iro- nia della sorte, lo sperone roccioso presso cui è piombato il seracco, da quando Edward Whymper vi si riposò durante la prima ascensione, quasi centotrenta anni fa. Il grande scalatore inglese, fondatore dell'alpinismo sportivo, aveva trovato facile, già ai suoi tempi, questa salita. Niente a che vedere con lo Sperone Walker, conquistato dal leccese Riccardo Cassin nel 1938. «Una via per alpinisti normali non per superman», dice Mario Mochet, responsabile dei soccorritori di Courmayeur. «Condizioni ideali: neve gelata, tempo sereno», aggiunge Lorenzino Cosson, direttore del soccorso nella Valle. Che cosa pensa la gente che prende l'aperitivo nei bar? «La gente pensa che quelli sono alpinisti, non fanno mica la passeggiata nel bosco coi bambini», dice Benedetto Mascardi, direttore degli operatori turistici. «Dio mio, con questo caldo, potevano pensarci, dice qualcuno. Ottanta morti ogni estate, solo che stavolta sono otto tutti insieme», dicono altri. «Ma guardi che è come il mare - dice il tassista Adriano Si¬ gnorini -: quando si sbaglia si paga e poi c'è l'imprevisto». E' vero: oggi le montagne sono diventate più basse. Le pareti Nord vengono scese sci ai piedi; i cosiddetti problemi alpinistici sono tutti risolti. La ricerca dell'exploit ha portato a inventare i concatenamenti di salite, passando dalla cima dell'una alla base dell'altra con il parapendio. Reinhold Messner scrive nel suo ultimo libro che in montagna non c'è più posto per la vera avventura. L'arrampicata sportiva sulle basse falesie, cronometro alla mano, chiodi di sicurezza a portata di caduta, ha trasformato la competizione con la roccia in un gioco. Le organizzazioni turistiche portano i clienti ai campi base dell'Everest e del K2 come se fossero spiagge caraibiche. Ma bisogna ricordare che il più forte ghiacciatore italiano, Giancarlo Grassi, è morto dopo l'uscita da una cascata per il cedimento di una cornice di neve. Per la stessa causa, una decina di anni fa, sul Monte Rosa, si sfracellò una cordata di aspiranti guide, che stava partecipando al corso di specializzazione. Nell'estate del 1986, meno di dieci anni fa, non ai tempi di Lacedelli e Compagnoni, si ebbero sul K2 tredici morti, quanti non ce n'erano mai stati in tutta la storia della montagna degli italiani. Estate tragi ca in cui scomparve anche il grande Renato Casarotto, che si era fatto un'invernale di quindici giorni proprio sulla Est delle Jorasses. Nel Gruppo del Bianco girano in agosto anche cinquecento alpinisti al giorno. Il rischio, il peri celo, piaccia o non piaccia, con sapevoli o meno, è una compo nente essenziale della loro avventura. La montagna non è un gioco: è sempre una sfida. Alberto Papuzzi «Le attrezzature sono migliorate ma la fatalità non è prevedibile» A sinistra l'elicottero della protezione civile impiegato per i soccorsi agli alpinisti. Leo Venturino, insegnante di Varazze, uno dei tre alpinisti liguri testimoni della sciagura

Luoghi citati: Courmayeur, Varazze