«Un boato poi li ho visti sparire»

«Un boato, poi li ho visti sparire» Era in cordata con due amici: «Il seracco è venuto giù all'improvviso, pezzi grandi come roulotte» «Un boato, poi li ho visti sparire» Un alpinista ricostruisce gli attimi della sciagura COURMAYEUR DAL NOSTRO INVIATO Il vento di Nord Est si infila giù per il canalone delle Grandes Jorasses e spazza la Val Ferret. Arriva teso sul piazzale sterrato dell'hangar. Gli elicotteri della protezione civile sono appena tornati. Stringe gli occhi Paolo Peirone mentre guarda su, oltre il ghiacciaio della Brenva, verso la cima del Bianco che con questo sole abbaglia. Guarda e impreca: «La montagna, è un amore maledetto». Col braccio teso Peirone indica il muro di pini e roccia che sale quasi dolce verso destra. La Whymper e la Walker, le due vette principali delle Jorasses, sono là dietro: «La via normale per arrivarci è un'autostrada. Proprio un'autostrada. Non è difficile. La fanno centinaia di persone, e non capita mai niente. Stamattina è capitato. Un inferno. E non puoi farci niente, se ti ci trovi in mezzo». Paolo Peirone ha 29 anni, è geologo a Savona. Nel punto esatto in cui la valanga ha travolto i tre ragazzi di Verona è passato otto minuti prima che quell'inferno si scatenasse. Da dove si trovava ha visto tutto. Impotente, dice. Corregge: «Paralizzato dall'impotenza». Era in cordata con due amici liguri, Renato Berruti, agente di commercio di Albissola, 34 anni, e Venturino Pantaleo, 42 anni, insegnante a Varazze. S'erano appena fermati su una dorsale di roccia che gli alpinisti chiamano «il Reposoir»: Whimper si fermò proprio qui a riposare durante la sua prima scalata alle Jorasses. Lo sperone è a quota tremilacinque, settecento metri più in alto del rifugio Boccalatte. Peirone racconta, e il suo è un racconto lungo, senza pause, come se il ricordo non gli lasciasse riprendere fiato: «Ho guardato l'ora quando ci siamo fermati, erano le 4,20 del matti no. Ho calcolato che per arriva re sin lì dal rifugio avevamo impiegato due ore esatte, e ragio navo tra me che stava andando bene. Era buio, ma non tanto da non vedere giù. Sotto il Couloir Whymper salivano la cordata dei due francesi e quella dei ragazzi di Verona, a pochi minuti di distanza gli uni dagli altri. Stavo controllando l'altimetro, quando ho sentito il boato. Un boato tremendo. E' successo tutto in un niente. Io, Renato e Venturino ci siamo cercati con gli occhi e d'istinto ci siamo voi tati, tutti e tre a guardare giù, verso i francesi. Abbiamo urla to: attention, attention. In mo menti come quello si fanno cose inutili. Attention a che? Che cosa avrebbero potuto fare? Non puoi fare niente quando ti trovi in mezzo, tranne aspettare che il ghiaccio ti travolga. Protetti dalle roccette, abbiamo visto il seracco venire giù, si sarà staccato cinquecento metri sopra le nostre teste. Due o tre secondi dopo il boato, una massa di ghiaccio e neve immmensa, polverosa, ha travolto i due francesi, subito dopo i tre ragazzi di Verona. Il fronte della valanga era largo un centinaio di metri, teneva tutto il canalone. Credo fossero centocinquanta, forse duecentomila metri cubi di ghiaccio e neve: il volume di un palazzo, con pezzi grandi quanto una roulotte. Le due cordate che salivano sono state spazzate via: formiche, niente altro che formiche. Ci siamo salvati noi e altre otto persone che stavano decisamente più in basso. Ce l'hanno fatta anche una ragazza giapponese e la sua guida. Lo spostamento d'aria è stato spaventoso. Quando il peggio è passato, io, Renato e Venturino ci siamo guardati: eravamo attaccati alla roccia con tutta la forza possibile, pietrificati anche noi. Non so quanto abbiamo impiegato per staccarcene». E' teso il vento di Nord Est sul piazzale dell'hangar. Paolo Peirone si stringe nella maglietta blu. Lo guardano Renato Ber- ruti e Venturino Pantaleo. Berruti gli tocca la spalla: «Ora rilassati» dice. E adesso è lui a parlare. Aveva con sé il telefono cellulare, spiega, e da lassù, dal «Reposoir», subito ha chiamato il Boccalatte, poi la protezione civile e la Società delle guide, a Courmayeur. «Credevo che i morti fossero cinque, dalle roccette i tre austriaci non li avevamo visti. Erano passate da poco le 4,20 quando ho telefonato. Gli elicotteri sono arrivati su alle 6: non avrebbero potuto prima, era troppo buio, e comunque sia non sarebbe servito a nulla, non c'erano superstiti da salvare. I cani da valanga hanno annusato la pista e gli uomini li hanno seguiti. Non so definire quello che hanno trovato, non posso». Ma Renato Berruti continua: «La testa di Davide... uno dei tre ragazzi di Verona, avevamo cenato e dormito tutti insieme al rifugio... Davide, era preparato, un bravo alpinista... Hanno trovato la testa di Davide che affiorava. Poco lontano dal ghiaccio veniva fuori un rampone. Il rampone era di Paola, il suo corpo era sepolto, il ghiaccio l'ha sfigurata. Erano ancora tutti e tre legati, così dopo Paola sono arrivati anche da Andrea. Mentre gli uomini scavavano per portarli via, i cani hanno continuato a cercare. Hanno segnalato altri punti, ma mi hanno detto che lo strato di ghiaccio che copre i francesi e gli austriaci arriva a uno spessore di sette metri. Ci sarebbe voluto troppo tempo, e incominciava a fare caldo. Riprenderanno stasera, col freddo, o all'alba di domani». Sono riprese alle sei del pomeriggio, le ricerche, e proseguiranno stamattina. «Uno spavento di destino» dice ancora Berruti sul piazzale sterrato, e mentre parla osserva quel gran via vai intorno agli elicotteri. Gli uomini della protezione civile e del soccorso alpino stanno slegando le tre salme, ora le porteranno a Courmayeur, all'obitorio. Davide, Paola, Andrea. Li ha conosciuti soltanto per una sera, ma che non fossero vecchi amici per Berruti non fa differenza. Riflette tra sé Roberto Berruti quando dice: «Fossimo partiti otto minuti dopo, il seracco avrebbe ammazzato noi». Poi: «A tavola, ieri sera, Davide e io eravamo vicini. Mi ha raccontato le sue ascensioni, io le mie. Ci siamo detti che finalmente il tempo s'era messo al bello, perché gli unici mesi possibili, non pericolosi, per le Grandes Jorasses sono luglio e agosto. E luglio quest'anno se lo sono mangiato la pioggia e la neve. E' nevicato in quota fino alla settimana scorsa». Gli elicotteri adesso entrano nell'hangar, i conduttori con i cani se ne vanno. Le bare con i corpi dei tre alpinisti di Verona vengono caricate sul carro funebre. Paolo Peirone stringe gli occhi e guarda la cuna del Bianco, «amore maledetto». Eva Ferrerò «Lo spostamento d'aria è stato tremendo ci siamo attaccati alla roccia disperati Quando il peggio è passato, abbiamo chiamato i soccorsi con il cellulare» Nella foto grande i soccorritori scavano alla ricerca dei corpi degli otto alpinisti travolti dal seracco.