Bacon il fetore del mondo di Marco Vallora

Capolavori e provocazioni della mostra veneziana Capolavori e provocazioni della mostra veneziana Bacon, il fetore del mondo «Tra vita e morte, solo violenza» D VENEZIA ISSE un giorno, ma vi aveva riflettuto tutta la vita (e pensava ovviamente al Waste Land di che diventa titolo di un Eliot, quadro nell'82): «La Terra, dopo tutto, non è altro che una vasta zolla di concime». Per Francis Bacon, al quale è dedicata una affascinante mostra in corso a Venezia, dopo che si è chiusa quella di Lugano sui dipinti dell'esordio, «tra la vita e la morte c'è un unico aspetto, la violenza della realtà». E tutto, ridursi a fare da diligente letame. In certi quadri di Bacon l'orizzonte si gonfia come una bolla di pus, ti par quasi di intravedere la rotondità persecutoria di questo mondo in cancrena. Come spiata da un satellite; anche se c'era già, quell'impressione curva gravida di finitudine, nei Calvari di Antonello, o di Matteo di Giovanni. Un groppo, una funerea consapevolezza, che sale quasi sempre a galla delle sue figure drammaticamente contorte. Non lo si può confondere con i surrealisti, Bacon, però; «Bisogna lasciar agire il subconscio fin dove è possibile: perché è un mare profondo». Lui che altrove dirà: «Bisogna battersi fisicamente con la tela, ed io continuo a rischiare, sperando che la fortuna lavori per me», aggiunge, in quest'occasione: «Continuo a sperare che le immagini vengano a galla. Credo in un caos magnificamente ordinato. Quando l'immagine incomincia ad apparire, bisogna controllarla»: proprio come una fotografia, durante la sua «stampa». E si sa quanto il fotografo precinematografico Muybridge («che io vedo sempre sovrapposto a Michelangelo»: quasi una dismetria dello sguardo, la muscolarità del movimento) abbia influito sulla sua pittura. Ingabbiare il moto, catturare il disfacimento, e quante volte le tele della sua maturità suscitano come un fumigante ectoplasma di recinto prospettico, una teca immaginaria per contenere queste larve, che stanno rabbiosamente disfacendosi, sotto il lavorio da roditore del color-topo, che smangia le fisionomie. Inscatolare l'ansia, sfruttando quel margine esiguo d'aria viziata che la claustrofobia ancora concede: forse soltanto con Proust l'asma di cui il pittore ha sempre sofferto è diventata altrettanta occasione di stile, metrica del mostrare (un poco come la tachicardia teorizzata da Bertolucci). Esalare le forme, tentando invano di preservarle dalla corruzione: e quante volte i corpi di Bacon si sostengono quasi provocatoriamente sopra piedistalli aziendal-modernisti, alla Eames, quasi un'ostensione apologetica del morire. Ostie derisorie di una quotidiana cerimonia del perire. Se la mostra veneziana - al Museo Correr, sino al 18 ottobre (catalogo Electa, con saggi di Bonito Oliva, Mellor, Deleuze, Trucchi e Palazzoli, oltre al curatore David Sylvester) - ambisce a esporre soprattutto dei capolavori, la recente e non meno fasci- nosa mostra di Lugano mostrava gli esordi del pittore dublinese, documentando proprio questa esigenza elementare della geometria. Un inizio per bisogno, dopo la fuga di casa (e alternandolo all'altro mestiere, del giocatore d'azzardo): con ì'understatement del decoratore neo-déco, tappeti e arazzi. Un cubismo sentimentale, ornamentale, stemperato: tra Stuart Davis e Le Corbusier, con qualcosa dell'intricato boschivo di Sutherland. E infine lo choc di Picasso, delle sue ghignanti, deformate bagnanti sulla battigia. Ma qui a Venezia saltiamo il periodo di svagato apprendistato: e crolliamo subito addosso alle sue raccapricciate figure di omuncoli, che possiedono, di ghignante, null'altro che la bocca. Qualcosa di corroso dall'interno, che prelude ad Alien. Un misterioso, dentato canale tra l'interno e l'esterno, l'intestino loquace della bocca: «La delicata vibrazione cromatica della lingua tra i denti, che non sono mai riuscito davvero a riprodurre». Un'idea ossessiva, quasi: Bacon si concentra sulle bocche come Monet sulle ninfee, e certe sue mucose voraci come dei Turner novecenteschi, tempestosi di saliva, desideri o strepiti. L'allucinato urlo dei suoi Papi, strappati a Velàzquez e trapiantati in una fumosità da discoteca. Come Baron Corvo, cattolico perverso, Bacon annusa e gode l'odore d'incenso delle pompe pontificie: ma le strania d'ambiente, accentuando la solitudine. Spesso una lampadina, dall'acida luce di neon, viene a vulnerare il trepido raso tizianesco dello sfondo. Non è più la mistica fonte di luce degli interni caravaggeschi, ma una fosca, persecutoria luce d'inquisizione, che pervade tutto, «entrando direttamente nel sistema nervoso» della pittura. Come l'uomo di Piero della Francesca, il purillo generatore d'iUuminazione diventa il punto di fuoco della scena, costringendo Adamo alla liturgia luttuosa del lavoro. L'ombria, ai piedi delle figure, come un cagnolino arrendevole, è un grumo di sangue, in cui le forme incominciano a dissanguarsi. «Il fetore del sangue umano - gli insegna Eschilo - sorrideva al mio cuore». «La più grande arte ti riporta alla vulnerabilità della situazione umana»: per questo il pittore meornincia a levare via via i veli dell'imperdonabile inganno. Alcune ridondanti frecce indicano agli sprovveduti la scena dell'immagine, appuntando lo sguardo, quasi fosse una matita. La sabbia si fa porpora, impanata dal sole: non è certo un rilassamento turistico, quel rictus che contrae le rade figure nude, annegate sulla sdraio. Sulla juta della vita si disegnano i Crocefissi, trittici ispirati più alle foto segnaletiche che a Griinewald (per ammissione del pittore): l'incubo di Fùssli si è raggelato in un ghigno chiodato che non chiede speranza. Marco Vallora a Francis Bacon, «Studio per il ritratto di Papa Innocenzo X», 1965, uno dei capolavori presenti nella rassegna veneziana

Luoghi citati: Griinewald, Lugano, Venezia