Via Veneto il mito non torna

Via Veneto, il mito non torna a 35 anni dalla «dolce vita» si cerca di favorire la rinascita della strada, ma i tempi sono cambiati Via Veneto, il mito non torna Nell'isola pedonale solo malinconia UNA LEGGENDA IN RIANIMAZIONE E ROMA NRICO Mattei, sì: lui, YEnimattei leggendario, affittava, a Roma, una suite all'albergo Eliseo, alle spalle di via Veneto. Al contrario di sua moglie, bionda, bella, gentile, Mattei preferiva Milano perché, spiegava, a Roma si sta troppo bene e passa la voglia di lavorare. Quando capitava a Roma faceva due passi su e giù per via Veneto. Solo. Niente scorta, negli Anni 50-60. Allora, i «pezzi grossi» andavano a comperarsi l'aspirina nella farmacia a un passo daU'Bccelsior, si siedevano per un caffè allo Strega: Uberi. A Mattei piaceva far quattro chiacchiere coi giovani giornalisti che dopo un boccone al Piccolo Mondo o da Giovanni in via delle Marche, nei meriggi deserti della «piccola estate», oziavano un po' al bar. Un giorno, ero appena tornato da un viaggio in Etiopia suggellato da un'intervista con il Negus, riferii a Mattei questo scambio di battute fra il Re dei Re e il sottoscritto. Negus: lei è amico di Mister Mattei? Io: no, lo incontro qualche volta al caffè, di sfuggita. Negus: se lo vede gli dica che sarei felice di affidargli la raffineria di Assab. Io: ma lei, maestà, non l'ha già affidata ai sovietici? Negus: non è un problema. Se Mister Mattei la vuole sarà fatto. «Mister Mattei» rise di gusto, poi: «Io, purtroppo, sono il presidente dell'Ente Nazionale Idrocarburi - disse -, non un raider del petrolio. Purtroppo». E se ne andò, lasciando, come sempre, da distratto marchigiano qual era, che pagassimo noi il suo caffè. Di Vincenzo Cardarelli, Vincenzino Tallarigo, detto «l'ilare upupa», diceva: «Abita in un cappotto, a via Veneto». Il vecchio poeta era patologicamente freddoloso. In pieno giugno, sciarpa e pastrano in dosso, si godeva il sole della «piccola estate» seduto davanti la Ubreria Rossetti. Giovannino Russo, uno dei giovani giornahsti ammessi alla «Corte del Mondo», gli si accostava riverente omaggiandolo spagnolescamente, avendone, in risposta, grugniti annoiati. Era bella e pulita, allora, via Veneto e quei ritagli di ozio che Pierino Accolti chiamava des démons de l'après-midi)), mi sono rimasti nel cuore. C'era una magiara ossigenata che raccontava sue improbabili avventure «coi grandi della terra»; passava rapido, sorridente, Giangaspare Napolitano («Ninni, ci vediamo più tardi»); compariva Giuseppe Berto: biondo, pallido, occhiaie da adolescente cresciuto troppo in fretta, l'autore del Male oscuro ci diceva del suo amore per una «ragazza capricciosa», che poi avrebbe sposato e capricciosa non era. Pietro Germi strapazzava Saro Urzì chiamandolo con affettuoso sgarbo «maresciallo delle mie ciabatte». E scorreva, piccola, magrissima, bionda, Novella Parigini, mano nella mano con una giunonica ragazzona svizzera chiamata Ursula Andress. «Domani arriva», lanciava lì Novella. Ad arrivare sa- rebbe stato Marion Brando, che si faceva spedire la posta allo studio della Parigini, in via Margutta. Iersera, alla cerimonia un po' festa de noantri (pensionati in giacchetta, fusti in shorts, ragazzotte in vestito da spiaggia) con la quale s'è voluta salutare la «rinascita» di via Veneto, trasformata in zona pedonale per riportarla ai «fasti della dolce vita», iersera non ho riconosciuto Novella Parigini: sembrava uscita da una tela di Boterò. «Sono passati 35 anni, mica spiccioli», mi ha detto, comprensivo, «Spazzola» che giustappunto 35 anni fa aiutava Valentino, il principe dei barmen, a servire «il solito» a Paolo Monetti, Vittorio Gorresio, Giuseppe Saragat, Giancarlo Pajetta, Mario Pannunzio, Sandro de Feo, G. G. Napolitano, Luigi Barzini junior, Ercole Patti, Vitaliano Brancati, Giuseppe Villaroel. Trentacinque anni fa, almeno per quel pugno di ragazzi che facevano giornalismo vero, con tutta l'anima, via Veneto era importante perché c'era Rosati. Quel caffè ospitava, tutte le sere nell'inverno e tutte le notti, d'estate, i Maestri. Quelli che ho appena citato e ancora Enrico Falqui, Gianna Manzini, Paola Masino, Domenico Bartoli, Emilio Cecchi, Amerigo Bartoli, Arrigo Benedetti, Marino Mazzacurati (scortato da un giovanissimo Bruno Caruso), Salvatore Quasimodo, Ernesto Rossi. I Maestri facevano scuola, scuola socratica. Discutevano tra di loro, che so, dell'ultimo film di Chaplin ovvero di Togliatti e, sovente, chiedevano il nostro parere. Eravamo in po¬ chi: Mino Guerrini, Giovanni Russo, Piero Accolti, Alfredo Todisco. Poi c'erano i «fuori quota», i giovani che scrivevano addirittura sul Mondo: Ronchey, Spadolini (ma loro non venivano in via Veneto), Arbasino, Giulia Massari (la sua raffinata, perfida rubrica L'invitato rimane un classico), Carlo Laurenzi che con le sue «moralità» anticipava la bellezza struggente di Toscana delusa. Eugenio Scalfari entra in quel nobile giro un po' più tardi, quando alcuni di noi cominciavamo a vivere più all'estero che in Italia per via del nostro lavoro di inviati. In quel tempo, da Doney's a mezzanotte, arrivava spesso Luchino Visconti seguito da una piccola corte trepida. Raramente i Maestri lasciavano il loro territo¬ rio, chi trascorreva dall'uno all'altro, da Rosati a Doney's, dal Café de Paris allo Strega, era Ennio Flajano. Lo sai, mi confidò una notte, lo sai perché non sono diventato comunista? Perché aveva una bambina down e alla Garbatella, dove abitava nel suo immediato approdo a Roma, in quel quartiere proletario, i «figli del popolo comunista» la sfottevano. Sfottevano la piccola e infelice figlia dell'infelice Ennio Flajano. Sorrideva, era tagliente («Via Veneto?, una realtà gastro-sessuale»), si divertiva a fare scherzi terribili all'ex re Faruk («Esiliato in via Veneto») epperò nel suo cuore albergava la tristezza. I benemeriti signori che han promosso la «rinascita» di via Veneto sperano di vitaminizzare così l'anemico «turismo culturale» di una Roma sempre più mediorientale. Dobbiamo essergliene grati, ed erano persino commoventi iersera per quanto si davano da fare, con tutta quella musica Anni 60 e gli «ospiti illustri» della canzone, tuttavia dubitiamo che riescano nell'impresa. Tutt'al più riusciranno a rilanciare locali «storici» come Doney's, il Café de Paris, YHarry's Bar (e non sarà poco) ma quella via Veneto della dolce vita io credo che non tornerà mai più. «L'esprit du temps» è diverso proprio perché viviamo un tempo diverso. In uno dei suoi preziosi elzeviri, Carlo Laurenzi ha recentemente scritto, sul Giornale, che quelli erano «anni fiduciosi». Gli anni in cui a via Veneto si faceva cultura perché esisteva la libera università volontaria del Caffè Rosati, con Pannunzio Magnifico Rettore. Il Caffè Rosati non c'è più, sostituito da Carpano diventato poi Carpès, che dovrebbe riaprire a settembre. Non c'è più la libreria Rossetti. Non c'è più quella Roma che ci vedeva poveri ma, appunto, fiduciosi perché uscivamo dalla guerra, dalla fame, e credevamo nel futuro che noi giovani avremmo costruito nel segno della libertà, dell'onestà. Non che fossimo dei quaccheri, anzi. A Pannunzio piaceva andare alla Rupe Tarpea; lui e sua moglie erano provetti ballerini. Certo i Maestri tiravano tardi da Rosati ma non li ho mai visti da Victor, il night di Victor Tombolini e Madame Bianche. Uscivamo dal giornale, Pierino ed io, e Mirko, alle due di notte e andavamo in via Veneto a vedere chi c'era, poi subito da Victor, proprio sul retro di Rosati. Re di quel mitico locale era Lello Bersani che lo frequenta ancora, anche se ha cambiato nome e gestione. Là, da Victor, vidi una notte Lauren Bacali, gelosa, graffiare a sangue suo marito Humphrey Bogart perché faceva lo stupidirlo con una nobilotta romana. E vidi ondeggiare il tempestoso amore di Walter Chiari ed Ava Gardner. Fuori del night bivaccava Tazio Secchiaroli, il mitico fotografo al quale Fellini si ispirò per creare il «paparazzo». Grandi fotografie, le sue, favolose, e solenni scazzottature con gli accompagnatori delle «dive». Ma una notte che bruciò un albergo e la gente si buttava giù dal quinto piano, ammazzandosi, Tazio e i suoi concorrenti colsero quegli attimi fatali. Scattavano e piangevano. Anche la dolce vita nella sweetstreet fu spesso triste fino a diventare squallida. Oggi verrebbe fatto di domandarsi cos'è rimasto di quel tempo «fiducioso». Una grande malinconia e pochi vecchi ex ragazzi che rifiutano la rianimazione di un cadavere ad uso dei giapponesi e dei loro stramaledetti pullman. Ben venga l'isola pedonale in via Veneto, tutto il resto è retorica. Igor Man Non esiste più l'atmosfera «fiduciosa» in cui i maestri del giornalismo facevano lezione al Caffè Rosati e Luchino Visconti si sedeva da Doney ■ A fianco l'isola pedonale di via Veneto, inaugurata ieri. A sinistra un'immagine d'epoca, quando era il cuore della «dolce vita» a cui fu dedicato il film di Fellini