«In quel Villaggio c'ero hanno pestato la gente

«In quel Villaggio c'ero hanno pestato la gente «In quel Villaggio c'ero hanno pestato la gente L'INGLESE CHE ACCUSA GLI ITALIANI Nel rapporto di «African Rights» che accusa le truppe delle Nazioni Unite di aver sistematicamente violato i diritti umani della popolazione somale, la parte che riguarda le presunte malefatte del contingente italiano si regge sulla testimonianza di Ken O' Connell, un tecnico sminatore del gruppo inglese «Mines Advisory Group», un'organizzazione non governativa che gestisce operazioni di sminamento in tutte le maggiori zone calde del mondo, sponsorizzata dalla Comunità economica europea e in cooperazione con la Croce Rossa Internazionale. Nel suo rapporto di 35 pagine, «Africa Rights» ha imputato ai Caschi Blu del contingente italiano pestaggi di profughi e saccheggi di case abbandonate. La relazione consiste in un elenco di «abusi, violenze, torture e uccisioni commessi con impunità contro la popolazione civile». Questi - sostiene l'organizzazione indipendente - sarebbero solo «la punta dell'iceberg» di un generale «comportamento aggressivo» delle truppe delle Nazioni Unite. KEN O'Connel ci telefona finalmente, sapeva che lo stavamo cercando, e va subito al sodo: «Tutto è cominciato intorno alle due del pomeriggio del 16 di giugno nella cittadina di Belet Uen, a 30 km dal confine con l'Etiopia. Io e un membro svedese di Save the Children Fund captiamo delle trasmissioni radio italiane che parlavano di un'esplosione. Fino alle quattro non succede niente: a quel punto me ne stavo attorno a un tavolo con dei membri dell'organizzazione umanitaria Oxfam Quebec, che non erano stati avvertiti di nulla, quand'ecco un boato impressionante, vicinissimo, di tale intensità da scaraventarmi addosso un collega, mentre una pioggia di schegge cade tutt'attorno». Poi che è successo? «Le guardie del campo corrono a destra e manca caricando i fucili e sbraitando ordini, la gente per la strada è in preda al panico. Mezz'ora dopo ne sentiamo un altro, e capisco che provengono dall'interno del vecchio complesso militare italiano nel centro di Belet Uen. Il giorno successivo i boati ricominciano, per finire verso le 10 del mattino. A quel punto vado al complesso militare per chiedere agli italiani che diavolo stessero facendo, e mentre guido mi accorgo che le abitazioni somale tutt'intorno sono state pesantemente danneggiate, con muri crepati, finestre a pezzi, schegge ovunque». Chi comandava gli italiani? «Parlo col colonnello Martinelli, comandante del 187° reggimento di Livorno, che dopo una breve conversazione mi invita bruscamente a levarmi dai piedi. Solo più tardi sono riuscito a penetrare nel complesso, dove ho potuto verificare quello che Martinelli aveva fatto esplodere a pochi metri dalle abitazioni civili e senza avvertire i residenti: dei vecchi fucili e lancia-granate arrugginiti e dei lancia-razzi BM-21 da 122 mm. C'erano anche dei carri ar¬ mati, ma erano talmente disfatti da non richiedere alcuna demolizione». Ma le violenze? «Me ne stavo tornando alla jeep quando un gruppo di somali mi trascina sbraitando verso le loro case, ed è lì che mi è stata mostrata la parte paggiore della vicenda. Mi portano verso l'unica parte del complesso che aveva ricevuto la visita dei militari, dove incontro una donna ammalata e terrorizzata, che mi racconta che alle 9 del giorno precedente i soldati di Martinelli entrarono nel ioro campo per evacuarli; e siccome i somali non volevano abbandonare le loro case, li presero a calci, pugni e spintoni, sfondando porte e finestre. Lei, in particolare, che non poteva quasi maoyersi fu trascinata per i capelli a calci nel fondoschiena. Un'ifmuiazione terribile per una musulmana». lei questi fatti li ha veriiti personalmente? «Avejra gonfiori e graffi sulle braccia e sulle gambe, ma ovviamente non mi ha mostrato le naticheiGuardi, non si era trattato certocli una lite domestica, troppi mi hanno fatto vedere le stesse cose. Sembra anche che coloro che proprio non ce la facevano a muoventi velocemente furono letteralmente trascinati tra urla, botte spersino colpi di calcio di fucile nella nuca sotto gli alberi della parte Est del campo e costretti a stare lì per 10 ore senza acqua, nnmobili». E dei presunti furti cosa dice? «I somali hanno spesso cassette col lucchetto dove tengono quel poco che hanno: erano tutte sfasciate, lé^ho viste, e sembra che i soldati vi avessero rovistato in cerca di qualcosa di buono da portarsi via». Ma come, ragazzi pagati fior di dollari che rubano pochi scellini somali? «In realtà molte erano state solo sfondate senza portar via nulla. Sembrava più un gioco che altro. Un'altra donna mi ha raccontato che i militari facevano a gara a chi riusciva ad entrare per primo nelle baracche, se quelli che sfondavano le porte o quelli che entravano dalle finestre. Si immagini il danno». Come fa a essere sicuro che quello che le hanno raccontato sia vero? «Per la gente di Belet Uen gli italiani erano dei salvatori, erano amati. Piuttosto credo che temessero i nigeriani; e poi quei poveretti non fecero assolutamente nulla per attirare l'attenzione degli occidentali sull'episodio. Si aggrapparono a me perché fui l'unico che ci ficcò il naso, altrimenti sarebbero stati ignorati. Mi è stato poi detto che nella parte del campo che io non ho visto, chiamata College Militare, le cose andarono anche peggio». Paolo Bamard

Persone citate: African, Connell, Martinelli, Paolo Bamard

Luoghi citati: Africa Rights, Belet Uen, Etiopia, Livorno