OSSESSIONE DI VISCONTI ANNUNCIO' L'ALTRA ITALIA

OSSESSIONE DI VISCONTI ANNUNCIO' L'ALTRA ITALIA OSSESSIONE DI VISCONTI ANNUNCIO' L'ALTRA ITALIA Fu vera la collera di Vittorio Mussolini? direzione di «Cinema» al figlio del dittatore che l'avrebbe tenuta sino al 1943, con crescente autorevolezza e, conseguentemente, crescente difficoltà. L'avventura di «Ossessione» è strettamente mescolata all'avventura di «Cinema». Si può assaporare un simile coinvolgimento attraverso una testimonianza d'eccezione: quella, concessa da Michelangelo Antonioni a Lietta Tornabuoni, che figura come prefazione all'«Album Visconti», a cura di Caterina d'Amico de Carvalho (Sonzogno, 1978): «Ho visto Visconti la prima volta a Roma, in via Veneto, nel 1942. Sedeva al tavolino di un caffè con Mario Alicata, un intellettuale che sarebbe poi diventato dirigente della politica culturale del partito comunista italiano. Mi sembra che ci fosse anche Antonello Trombadori. Luchino era magrissimo e anche in lutto, vestito nero, occhiali neri. La prima cosa che mi colpì in lui fu il suo modo di guardare i rava era, si sa, «The Postman Always Rings Twice», ma Luchino Visconti ne aveva ricevuto la traduzione francese in regalo da Jean Renoir a cui era stata passata da Julien Duvivier con un abbozzo di trattamento. Pierre Chenal ne aveva già tratto una versione cinematografica nel 1939 sotto il titolo «Le Dernier Tournant» ma il soggetto appariva passibile di ulteriore sfruttamento e infatti, anche dopo quella italiana, ne sarebbero state girate altre due versioni americane rispettivamente di Tay Garnett nel 1946 e di Bob Rafelson nel 1981. Alla sceneggiatura e alla italianizzazione del soggetto americano infranciosato, insieme con Luchino Visconti, avevano collaborato Mario Alicata e Giuseppe De Santis, che figurano intestatari dell'autorizzazione ministeriale, più il fedele Gianni Puccini che figura nei titoli di testa e probabilmente, anche se non figurano nei titoli di testa, Rosario Assunto e Alberto Mo- chiara autonomia di principii, non sia possibile, oggi, una "nostra" pace: o gli angloamericani ci imporrebbero la loro o i germanici la loro. E, forse, sulla linea del Po, le due "paci" verrebbero a farsi guerra, tra ijpiù o meno partecipi spettatori...». (Giuseppe Bottai Diario 19351944 a cura di Giordano Bruno Guerri, Rizzoli, 1982). La rivista quindicinale «Cinema» era stata comprata dall'editore Rizzoli nel 1938 su consiglio di Arturo Osio, direttore generale della Banca Nazionale del Lavoro finanziatrice dei film di produzione italiana e, già che c'era, Arturo Osio aveva consigliato ad Angelo Rizzoli che voleva affermarsi come produttore cinematografico non meno di quanto già si era affermato come editore di rotocalchi, una specie d'imparentamento con la famiglia che in Italia contava di più dopo i Savoia, ovvero i Mussolini, offrendo la direzione di «Cinema» a Vittorio Mussolini detto «Vi», «La sera in cui fu proiettato, per la prima volta, è stato nell'estate del '43. In dna nave erano stati ritrovati alcuni film americani, destinati alla Svizzera; questi film erano arrivati al ministero della Cultura Popolare, e Vittorio Mussolini, per questa manifestazione al cinema "Arcobaleno", aveva organizzato il patrocinio della rivista "Cinema". Erano film assolutamente mediocri, ma tuttavia un film come "Il mago di Oz" riscosse applausi frenetici da una platea tutta assetata di cinema americano (e c'era tutto il cinema italiano al completo, che andava dall'eterno De Pirro sino ai giovani registi). Concluse questa manifestazione: "Ossessione". Era una serata terribile, di una calura spaventosa, il cinema era strapieno e noi stavamo in fondo alla sala perché non eravamo riusciti a trovare posto, con il cuore in petto perché si trattava di una serata abbastanza difficile che concludeva qualcosa. La proiezione iniziò: il pubblico era attentissimo e molto sbalordito. Alla fine, mentre incominciavano gli applausi un po' titubanti all'inizio e poi sempre più scroscianti, sentii sbattere una sedia e "Vi" se ne andò, dicendo fortissimo: "Questa non è Italia!". Uscì fuori dalla sala, sbattendo la porta. Luchino, frattanto, stringeva mani e mani commosse, sbalordite». Questa dichiarazione conserva tutta l'emozione e tutto il disordine provocati da un evento ritenuto straordinario, dal «cuore in petto» all'«uscir fuor ri» alle «mani sbalordite», peccati veniali dell'entusiasmo. L'imprecisione contenuta nella segnalazione di una generica sera dell'estate 1943 invece che della sera del 16 maggio di quell'anno fatale rischia, però, di stravolgere la comprensione della risonanza di quella «prima» per eletti del primo film di Luchino Visconti. Se, invece che a primavera, fosse stata presentata nell'estate dello sbarco degli anglosassoni in Sicilia, del voto del Gran Consiglio del fascismo e della caduta di Mussolini, dell'armistizio e delle due Italie, la storia dell'incontro nella Bassa Padana tra il vagabondo Gino (Massimo Girotti) senz'arte né parte e la malmaritata Giovanna (Clara Calamai) in attesa solo della morte del vecchio oste suo marito (Juan De Landa), del loro amore e del loro delitto, del loro rimorso e della loro fine ugualmente atroce per lui superstite come per lei morta, avrebbe suscitato • molto meno scandalo, privato orrore immaginario surclassato da orrori veri. Nella primavera del 1943 le cose non andavano certo bene per l'Italia, ma senz'altro non si prevedeva così imminente la fine, tanto è vero che un osservatore sensibile e preoccupato come Giuseppe Bottai (che pure di lì a poco avrebbe complottato e agito, insieme con Dino Grandi e Galeazzo Ciano, contro Mussolini) in data 19 maggio 1943, ovvero tre giorni dopo lo scandalo dell'«Arcobaleno», era ancora piuttosto perplesso sul da fare, il non fare o il disfare e annotava nel suo diario: «Pace separata. Una formula che corre di bocca in bocca. Ma nessuno sa che cosa vuol dire. "Vincere", "resistere", "pace separata", nessuno sa più che cosa vogliano dire, che cosa comportino. Si può al punto in cui siamo, "separare" una nostra pace dalla guerra comune? Propendo a pensare che non avendo noi, nella guerra comune, fatta una "nostra" guerra, concepita, cioè, e condotta secondo una Nellafolo grande una scena del film «Ossessione» Qui accanto: Luchino ì iscouli Nella foto piccola: l'i ti orio Mussolini passanti: come se fossero tutti di sua proprietà...». Michelangelo Antonioni era arrivato a Roma da Ferrara per lavorare all'È 42, il progetto di esposizione universale che il fascismo non potè portare a termine. Era uno dei segretari del presidente di quell'ente, ma non lo vedeva mai. Non aveva mai nulla da fare, in compenso gli era persino proibito leggere in ufficio. Così si era licenziato. E Gino Visentini lo aveva aiutato a entrare nella redazione di «Cinema», dove già aveva amici come Gianni Puccini e Giuseppe De Santis. «Erano comunisti, ma osservavano così bene la clandestinità che io non lo sapevo nonostante stessimo insieme tutti i giorni per gran parte della giornata. Da loro sentii parlare di Visconti. Ne parlavano come di un amico vicino a loro anche nelle idee, ma non capivo in che modo si manifestasse praticamente quella loro comunione...». Prima o poi lo avrebbe dovuto capire perché durante la lavorazione di «Ossessione» sarebbe accaduto di tutto. All'inizio, veramente, il primo film di Luchino Visconti non era intitolato «Ossessione». Il titolo originale del romanzo dell'americano James M. Cain a cui il film liberamente si ispi- ventiduenne, pilota volontario in Abissinia, studente in Legge, ma fanatico di cinema e già produttore d'un paio di film. Detto fatto: il quindicinale «Cinema», fondato da Luciano De Feo nel 1936 per volontà dell'editore Ulrico Hoepli a immagine e somiglianza di «Sapere», grande successo editoriale dell'epoca, era così entrato in concorrenza con il pizzoso «Bianco e Nero», nato nel 1936 sotto la guida di Luigi Chiarini, e con il pettegolo «Film», nato nel 1937 sotto la guida di Mino Doletti. Vittorio Mussolini aveva cercato di render «Cinema» più interessante, dimenticando «Sapere», tenendo più d'occhio 1'«Omnibus» di Leo Longanesi e aprendolo alla collaborazione dei suoi coetanei di valore, finendo per mettere insieme una corte di giovanotti di grandi ambizioni cinematografiche, anche se non sempre coincidenti con la dottrina di suo padre Benito. La fronda si era insediata a «Cinema» e dintorni, anche se Vittorio Mussolini aveva perso via via la voglia di fare il direttore per dedicarsi maggiormente alla produzione. Ma l'alleanza produttiva con Angelo Rizzoli era durata solo sino al 1941, poi il Commenda si era ritirato, pur lasciando la Maggio 1943, cinema «Arcobaleno* di Roma: va in scena ilfilm con la Calamai e Massimo Girotti ravia. Il primo titolo proposto e accettato, dopo un'abile campagna di favoreggiamento presso il Minculpop di due pezzi grossi come Eitel Monaco e Attilio Riccio, era stato, comunque, «Palude». Libero Solaroli a cui l'Ici (Industrie Cinematografiche Italiane) aveva affidato l'organizzazione del film si era buttato a corpo morto nella realizzazione. Ma i problemi di «Ossessione», già «Palude», nel 1942 parevano destinati a non finire mai. Luchino Visconti aveva voluto come protagonista Anna Magnani, allora celebre solo come attrice del varietà e apparsa solo limitatamente al cinema. Solaroli aveva approvato subito. La lei era restata dubbiosa a lungo. Ma Luchino Visconti non era solo il regista esordiente, era anche il vero finanziatore del film perché l'Ici aveva dato appena le cambiali del minimo garantito da scontarsi alla Bnl. La differenza tra il ricavato e lo sconto delle cambiali e il costo effettivo del film sarebbe stata coperta dalla non meglio precisata Arno Film di Roma di cui Visconti era il principale azionista. E la Magnani, incinta ma entusiasta per l'impresa, aveva taciuto di essere già al quinto mese.