Tra Cina e Inghilterra, il più furioso confronto dopo la guerra dell'oppio di 150 anni fa Pechino sfida Hong Kong breccia della democrazia

Tra Cina e Inghilterra, il più furioso confronto dopo la guerra dell'oppio di 150 anni fa Tra Cina e Inghilterra, il più furioso confronto dopo la guerra dell'oppio di 150 anni fa Pechino sfida Hong Kong breccia della democra2ia HONG KONG DAL NOSTRO INVIATO L'aereo proveniente da Tokyo vola in circolo sulla celebre baia, tra le nuvole nere e i venti ostili della stagione monsonica. Per un paio di volte accenna a scendere, poi riprende quota. Infine fa sul serio, spegnete le sigarette e così via. Ma, quando è già prossimo alla pista, in un assurdo corridoio tra file di palazzi, i motori ruggiscono e si ritorna alti nel cielo. Impassibile, il pilota inglese comunica che si è rinunciato all'atterraggio a causa dei venti e della visibilità e che «presto faremo un nuovo approccio». Che è quello buono. Non c'è allarme fra i passeggeri, si sa che spesso, d'estate, a Hong Kong si arriva così. Questo, almeno, è quanto io vedo. Invece, nella coda dell'aereo, c'erano un centinaio di ragazzi giapponesi, in gita scolastica e al loro battesimo del volo: la loro reazione è stata molto diversa. Lo apprendo la mattina dopo dal South China Morning Post, che dedica all'episodio un pezzo della prima pagina, riproponendo il problema vero, quello dell'estrema difficoltà, e diciamo pure della pericolosità, degli atterraggi a Hong Kong, anche quando non soffiano i monsoni estivi. Ma come, una città-Stato come Hong Kong, la terza piazza finanziaria del mondo, si accontenta di un aeroporto come il Kai Tac, in mezzo a un'area fra le più popolate della Terra (6 mila abitanti per chilometro quadrato), e con i jet che sfiorano ogni volta case ed uffici? In realtà non si accontenta, e infatti c'è il progetto di un aeroporto nuovo e ultramoderno, sull'isolotto, ben più disponibile, di Chek Lap Kok, da collegare con ponti e tunnel col resto della baia. Solo che il progetto, che è anglo-cinese, è frenato da Pechino, e non per motivi tecnici, ma per motivi politici. E qui comincia la «Hong Kong Story», uno dei casi più intricati di questo scorcio di secolo. Poco più di un anno fa Chris Patten viene nominato governatore della «colonia reale» di Hong Kong. E' il 28° governatore e forse l'ultimo, perché nel 1984 una dichiarazione congiunta dei governi di Londra e di Pechino ha previsto che il 1° luglio 1997 Hong Kong torni sotto la sovranità della Cina. Ma Patten non vuole limitarsi a gestire la transizione. Vuole lasciare un segno. E quale segno. Vuole semplicemente introdurre la democrazia nella quasi ex colonia, e indirettamente in Cina, in un pezzo di Cina, quale sarà, sia pure con un regime speciale (capitalistico), per 50 anni, Hong Kong: più della metà dei membri del Consiglio legislativo, 60 in tutto, dovreb¬ bero essere eletti a suffragio universale, nel 1995, contro i 18 scelti nel 1991, gli altri essendo nominati dal governatore o da associazioni professionali. La reazione di Pechino è prima incredula e poi furibonda. Resuscitando fobie e retoriche antiche, Patten è paragonato ai «diavoli stranieri» e ai «barbari» dell'Occidente, che non riconoscevano alla Cina il fatto d'essere il centro del mondo e della civiltà. L'idea di introdurre elementi di democrazia liberale, occidentale, nell'universo cinese è accomunata al commercio dell'oppio, imposto dagli inglesi tra il "700 e '800; e si preannuncia una reazione come quella del commissario imperiale Lin Zexu, che nel 1839 accerchiò gli inglesi a Canton costringendoli a bruciare 20 mila casse di droga. Ne derivò una guerra, detta dell'oppio, e il Trattato di Nanchino del 1842, col quale la Cina cedeva «per sempre» l'isola di Hong Kong. Precedenti poco graditi per gli inglesi, i quali rovesciano il discorso e dicono, più o meno: d'accordo, Hong Kong è un simbolo del vecchio colonialismo, ma è diventata negli ultimi decenni, col nostro sistema, la terza capitale della finanza, dopo New York e Tokyo, con un reddito prò capite di 18 mila dollari, pur essendo stipata di sei milioni di abitanti (molti provenienti dalla Repubblica popolare) in poco più di mille chilometri quadrati. Acconsentiamo a restituirla alla Cina ma chiediamo anche garanzie politiche per la popolazione. E se i nazionalcomunisti cinesi tirano fuori la guerra dell'oppio, gli inglesi ricordano che Sun Yat-sen, il fondatore nel 1911 della Prima Repubblica, ora rivalutato dagli stessi comunisti, invitò proprio gli studenti di Hong Kong a «diffondere in tutta la Cina l'esempio britannico del buon governo». Insomma, se la Cina teme il contagio demo¬ cratico come qualcosa d'intollerabile rispetto ai suoi programmi di sviluppo, la Gran Bretagna, o almeno il governatore Patten, vorrebbe lasciare una traccia profonda dei «valori occidentali» in quest'ultimo, estremo residuo del grande impero vittoriano. E l'aeroporto? L'aeroporto c'entra, ma bisogna entrare un po' più nei dettagli di questo contrastato e tormentato accordo tra Londra e Pechino. Nel 1988 il «parlamento» cinese varò una legge, riconosciuta dagli inglesi, che ammette la sovranità britannica fino al 1° luglio 1997, ma assegna alla Cina un sostanziale diritto di veto su tutte le decisioni importanti. Compresa quella del nuovo aeroporto, il cui costo stimato è di 21 miliardi di dollari, 30 mila miliardi di lire. Il progetto era che l'impianto avveniristico di Chek Lap Kok fosse pronto per il giugno del '97, e quindi fosse un'altra eredità della gestione britannica, benché pagata da ambo le parti, col concorso di grandi società private. Dopo l'iniziativa di Patten, Pechino ha tirato i freni. E ora i passi avanti e indietro sui contratti per l'aeroporto riflettono esattamente i progressi e i regressi del negoziato globale sul futuro di Hong Kong. Come andrà a finire? Che Chek Lap Kok sia pronto tra meno di quattro anni, nessuno lo crede. In questo senso, Pechino ha fatto un punto. Ma a vantaggio di chi? Il polmone capitalistico di Hong Kong interessa la Cina (che vi fa passare quasi la metà del suo commercio estero e dei suoi traffici finanziari) quanto la Cina interessa agli abitanti di Hong Kong, che ne dipendono per più di un terzo delle importazioni, compresi i prodotti alimentari e perfino l'acqua. In fondo, la meno interessata è l'Inghilterra, che con la sua leggendaria caparbietà difende soprattutto dei princìpi. Come (ricordate?) per le isole Falkland, anche se non ci sarà nessuna guerra per la democrazia a Hong Kong, un secolo e mezzo dopo quella per l'oppio. Il ministro degli Esteri Hurd è andato a Pechino per una visitalampo e ne è ritornato con dichiarazioni prudenti che, secondo l'edizione asiatica del Wall Street Journal, vogliono dire che c'è un accordo a non ingigantire il disaccordo, anzi a contenerlo e possibilmente a risolverlo. Come, non si sa. Verosimilmente, con concessioni reciproche. Poi ci sono state indicazioni contraddittorie. Comunque, a Hong Kong, molti o tutti pensano che la «crociata» di Patten non potrà andare oltre un certo punto. E nemmeno se lo augurano. Magari la Cina ammetterà un numero maggiore di deputati eletti, purché non siano la maggioranza. Chissà. E poi, che sarà la Cina, essa stessa con trasformazioni profonde, da qui a quattro, dieci anni? Però sono molti anche coloro che pensano, pur appoggiando Patten e il partito dei «democratici uniti», che un'epoca è finita e che il futuro è altrove: soprattutto in Canada e Australia, i cui passaporti sono contesi ad alto prezzo. Resta che è una vicenda straordinaria: molto inglese, molto asiatica, molto cinese. E anche molto emblematica di un mondo insieme confuso e creativo. Intanto, nelle botteghe di Nathan Road, a Kowloon, vendono magliette col disegno della bandiera britannica, per metà cancellata, che svela quella cinese. Un segnale di opportunismo e sfruttamento consumistico del proprio destino. Un estremo messaggio all'Occidente? Aldo Rizzo Atterraggi-brivido tra (grattacieli ma i cinesi bloccano il super-aeroporto perché il governatore di Londra, «barbaro straniero», vuole il suffragio universale ». M ■ ...✓«;... ®; H wjm ■ ■ Vecchio e nuovo nella colonia reale, di Hong Kong, che il 1° luglio 1997 tornerà sotto la sovranità cinese