Il caso Enimont a una svolta clamorosa: 150 miliardi di tangenti per accelerare la vendita Garofano e Sama: questi i politici pagati di Susanna Marzolla

Il caso Enimont a una svolta clamorosa: 150 miliardi di tangenti per accelerare la vendita Il caso Enimont a una svolta clamorosa: 150 miliardi di tangenti per accelerare la vendita Garofano e Soma; questi i politici pagati Ci sono anche ministri del governo Andreotti-Martelli MILANO. Carcere di Opera, ore 19. Esce Antonio Di Pietro, la faccia sorridente di un pescatore con la cesta piena. Esce Luca Mucci, avvocato di Giuseppe Garofano. Di cosa avete parlato? «Dell'affare Enimont stavolta, solo di Enimont». E Garofano ha fatto i nomi dei politici? «Sì, li ha fatti. Anche se, capirete, non posso dirli». Adesso è sicuro: «I massimi esponenti dei partiti di governo», finora solo ombre dai contorni intuibili, si sono materializzati in nomi, cognomi, incarichi, funzioni. E cifra di tangenti percepite. Ne ha parlato Garofano. E ne ha parlato anche Carlo Sama. Non vogliono dire nulla i suoi avvocati, Arata e Mucciarelli: «E' una questione delicata, molto delicata». Si capisce: la Procura sta già preparando gli avvisi di garanzia, che partiranno entro la settimana. Sta anche discutendo se e quali posizioni eventualmente trasmettere al tribunale dei ministri. Perché in quell'elenco ci sono alcuni membri del governo che gestì l'affare Enimont. Era il governo con Giulio Andreotti presidente del Consiglio e Claudio Martelli suo vice; i ministeri economici erano gestiti da Cirino Pomicino (Bilancio) e Rino Formica (Finanze). Il ministero più direttamente interessato, quello delle Partecipazioni statali, era retto dal defunto Franco Piga, mentre Gianni De Michelis gestiva gli Esteri. Era l'epoca del «Caf», con Craxi e Forlani segretari di partito. L'elenco non comprende solo ex ministri. Pare che anche capi-corrente e dirigenti di alto livello di de e psi siano stati beneficiari di una tangente dalla cifra record. Centocinquanta miliardi: questo è quanto hanno stabilito i magistrati dopo gli ultimi calcoli. Ci sono i cento miliardi reperiti attraverso le operazioni immobiliari condotte da Sergio Cusani, ma anche decine di miliardi tirati fuori da Pino Berlini. E' stato molto preciso, l'uomo svizzero dei Ferruzzi, nell'elencare quali operazioni erano servite a trovare i fondi per le scalate azionarie, e quali invece sono state utili a formare provviste extrabilancio per pagare i partiti. A quanto si è saputo in Procura, l'elenco dei politici coinvolti era già pronto: messo insieme grazie ai documenti e alle testimonianze già raccolte. Mancavano solo ulteriori conferme: da Cusani, che però rifiuta di parlare; da Sama, che già lunedì aveva offerto «ampia collaborazione»; da Garofano, che continuava a tenersi sul vago. Così la cronaca della giornata si apre con una dichiarazione di parziale delusione da parte dei magistrati. Garofano - si dice ih procura - ha rinunciato, è vero, ai diritti dell'estradizione ma poi si è limitato alla conferma di fatti già noti. Anche le operazioni immobiliari per accumulare fondi neri si conoscevano: ne avevano già parlato Roberto Magnani, ex direttore della Fer- fin, Roberto Michetti, collaboratore di Gardini, e l'immobiliarista Bonifaci. Insomma Garofano parla molto ma dice poco. «Non ha mai svolto il ruolo di accusatore che fa nomi - spiega adesso l'avvocato Mucci -, la delazione non è nel suo stile». Dunque è vero che la procura non era soddisfatta? «La procura non fa mai salti di gioia. Direi quasi che è il suo ruolo istituzionale quello di diffidare delle tesi difensive. Questo rischio di delusione mi sembra però superato dopo questi ultimi interrogatori, di Garofano e di Sama». Spiega infatti il legale che le loro tesi «sono apparse coincidenti, sia nella tematica che nella ricostruzione dei fatti». E soprattutto tiene a dire una cosa: «Garofano ha messo bene in evidenza che tutto il gruppo Ferruzzi, a partire da Raul Gardini, è stato vittima e non coautore di fatti gravi». E le tangenti? «Sono stati costretti a fare una scelta», dice l'avvocato e così spiega l'intera vicenda: «Enimont era in una fase di stallo e c'erano due alternative. Comprare tutto o vendere la propria quota. Non nego che Gardini avesse in mente di diventare davvero il padrone della chimica, ma era Garofano ad occuparsi di numeri e davanti ai numeri gli ha detto che l'unica soluzione era vendere. In caso contrario la Montedison si sarebbe trovata sulle spalle qualcosa come 15- 17 mila miliardi di debiti, una cifra insostenibile». Di nuovo: e le tangenti? «Erano lo strumento per sciogliere subito il nodo di Enimont». Anche per ottenere una supervalutazione della quota Montedison? «No, le tangenti non hanno avuto nulla a che fare con il prezzo pagato. Servivano soltanto ad accelerare i tempi». Centocinquanta miliardi ai partiti di governo per far presto, per chiudere in fretta un affare che si stava rivelando troppo dispendioso. In ogni settore: Gardini, ad esempio, avrebbe finanziato anche i soci-amici che dovevano rilevare il «flottante» (le azioni non Eni e non Montedison) rimettendoci, pare, 40 miliardi. Ormai il quadro è sufficientemente chiaro e sia Sama che Garofano non dovrebbero più essere interrogati, almeno a breve termine. E si pone il problema della loro scarcerazione: gli avvocati di Sama hanno già presentato l'istanza, Mucci dovrebbe farlo oggi. E mentre si aspettano nuovi provvedimenti il «terzo uomo» dei fondi neri Eni, Aldo Molino, è entrato ufficialmente nell'inchiesta tangenti. Per ora da una porta di servizio (una vicenda di assicurazioni alle Ferrovie), ma non tarderà a varcare anche quella principale, Enimont compresa. Susanna Marzolla «Gardini voleva liberarsi subito della chimica per evitare buchi enormi in Montedison» Il pubblico ministero Antonio Di Pietro (sopra) ha condotto l'interrogatorio di Garofano (a lato)

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