Papà Alcide un trentino in prestito

quel giorno Quarant'anni fa la caduta del suo ultimo governo e la fine di un'epoca quel giorno Quarant'anni fa la caduta del suo ultimo governo e la fine di un'epoca Papà Alcide un trentino in prestito Tv] SELLA DI VALSUGANA 11 UANDO mi sveglio e mi 11 ricordo che sono De Ga- 11 speri mi viene l'angoscia». y 1 Quella frase, la figlia Ma> ria Romana l'ha sentita dire tante volte a suo padre, la mattina, quando era presidente del Consiglio. «Andava a letto alle 11, e dormiva, sempre, senza bisogno di pastiglie. Ma la mattina gli venivano addosso tutti i problemi. "Le geremiadi devono essere ratte di mattina", diceva;;. Ci sono due ragioni, oggi, per parlare con Maria Romana: esattamente 40 anni fa, il 28 luglio 1953, cadeva alla Camera l'ottavo e ultimo governo De Gasperi, si chiudeva un'era della storia italiana. E proprio in questi giorni i suoi eredi politici, sempre più lontani da lui, cambiano addirittura il nome al partito. Ma la primogenita di De Gasperi non vuole dare giudizi su una situazione che troppo la rattrista. Alla figura del padre lei ha dedicato la vita: quando era ragazza facendogli da segretaria al Viminale («senza prendere una lira. Andavo in ufficio tutte le mattine alle otto, ma mio padre sosteneva che due stipendi dello Stato nella stessa famiglia non erano una cosa seria»); dopo la morte di lui, raccogliendo i documenti, e pubblicando mia serie di libri che ne mettono in luce la figura segreta, le delusioni, i conflitti, le sofferenze sconosciute. Siamo nella casa di Sella, solitaria fra i pini e le betulle, dove il «trentino prestato all'Italia» tornava ogni estate a respirare l'aria dei suoi monti. Qui parla tutto di lui. Sopra il camino c'è la piccozza delle sue escursioni in roccia; sugli scaffali, i libri che si teneva quassù: i discorsi parlamentari di Cavour e la biografia di Rosmini, Il prìncipe di Machiavelli e La crìtica letteraria nel Rinascimento di Spingarn, molti classici in inglese, molti di più in tedesco. Al piano di sopra, nel piccolo studio che si affaccia sui monti dell'altipiano di Asiago, c'è la scrivania dove De Gasperi lavorava; e dovevano fare attenzione, in casa, a non disturbarlo («sotto tutte le sedie c'erano le gomme perché non facessimo minore spostandole»). Accanto, la stanza monacale dove è morto, il 19 agosto 1954, un anno dopo aver lasciato il governo. E, sul sentiero che conduce alla casa, è possibile trovare la testimonianza più straordinaria. L'anziana signora a cui ho chiesto informazioni ho scoperto dopo - era la vedova di De Gasperi, la signora Francesca, 99 anni, uscita per la passeggiata quotidiana nei boschi. Di quella atmosfera, secondo Maria Romana, è rimasto assai poco, nel nostro Paese. L'amarezza della figlia è la stessa che aveva intuito il padre, 40 anni fa. «De Gasperi diceva: "Gli uomini della mia età se ne andranno, quelli di mezze sono stati educati sotto il fascismo. E ai giovani, chi penserà?". Era un suo grande problema». Sapeva da quale cultura nasceva la generazione successiva alla sua, ed era timoroso di quanto sarebbe venuto dopo. Maria Romana quel dopo lo ha visto. «Gli uomini nati sotto il fascismo e diven- tati politici alla sua fine non hanno avuto una formazione di libera scelta; e quindi non hanno saputo lasciarla agli altri». L'Italia che De Gasperi si era trovato a governare era quella povera, ancora lacerata dalla guerra. «Ricordo che la polizia non aveva nemmeno le scarpe. Quando una pattuglia tornava dal servizio, doveva passare le proprie scarpe a quelli del turno successivo», dice Maria Romana. E nel suo libro «De Gasperi uomo solo» cita la vita spartana che conducevano i ministri del governo Bonomi, nella villa di Vietri. Il cameriere in guanti bianchi che serviva le polpette si chinava all'orecchio dei commensali, per suggerire discreto: «Due, signor ministro». Per De Gasperi quella austerity non era una novità, l'aveva vissuta tutta la vita: specie negli anni del fascismo, quando gli avevano trovato un piccolo impiego alla Biblioteca Vaticana, tanto defilato quanto mal retribuito. «La sera usciva alle sette, faceva una passeggiata con la mamma in via Cola di Rienzo: andavano nei negozi per vedere cosa non potevano comperare». Facevate una vita dura, in famiglia? «Non ci siamo mai accorte di non avere comodità particolari, perché non frequentavamo case di famiglie abbienti. Papà era sempre sotto sorveglianza, nei primi anni doveva presentarsi alla polizia, e avevamo un giro limitatissimo. Vedevamo solo i figli degli altri antifascisti, cercavamo di non mettere nei guai altre persone». Ma non veniva nessuno, in casa? «Negli ultimi anni del fascismo veniva qualcuno, la sera, noi non dovevamo vederli. Io mi nascondevo dietro una tenda, fra il corridoio e il salotto, cercavo di spiare. Con mia sorella avevamo dato a tutti un soprannome. Due erano Cric e Croc». E chi erano? «Non sapevamo i loro nomi. Solo dopo molti anni ho pensato che potevano essere Sceiba e Spataro. Papà non ci parlava della sua vita politica, di quella che il fascismo lo costringeva a fare, per non metterci a disagio con le nostre amiche. Io l'ho scoperta quando ero grande, dalle sue carte». Che tipo di padre era, Alcide De Gasperi? «Aveva una paternità affettuosa, che tranquillizzava. Noi sapevamo che c'era lui, e quindi non avevamo paura nella vita. Era importante, ma non sovrastante. Ci lasciava una grande autonomia, voleva che provassimo. Ma si lamentava che i nostri studi non fossero così seri come quelli che aveva fatto lui in Austria». Era un padre severo? «No. Aveva molti anni più di noi perché si era sposato a 40 anni. Era amante del latino e del greco, la sera leggeva le Ecloghe prima di addormentarsi. E dedicava molto tempo a noi negli studi. Ci ha letto quasi tutta la Commedia. La sera, a me e a Lucia, leggeva Dante nell'edizione del Dorè. La mamma era un po' scandalizzata: "Ma Alcide, far vedere quelle cose alle bambine!". E lui: "Che male c'è?". In tutto quello che era natura per lui non c'era malizia». Dove andavate a scuola? «Dalle suore di Nevers, sul Lungotevere. Per andare alle scuole pubbliche avremmo dovuto prendere la tessera fascista e mio padre non lo permetteva. Ci fu un problema quando io dovevo dare l'esame di quinta ginnasio, perché veniva una commissione esterna, e sembrava che dovessimo presentarci in divisa. Chiesi a mio padre cosa avrei dovuto fare. Mi rispose: "E tu non studi". Se io avessi messo la divisa avrebbe significato, per papà, piegarsi al fascismo: e questo non poteva farlo. Lui aveva sacrificato la vita sua e quella di mamma. "Non mi pie- gherò", aveva scritto nelle lettere dal carcere». E lei non diede l'esame? «Le suore trovarono una scappatoia. C'erano anche molte ebree, in quella scuola. Ci permisero di presentarci con la divisa del collegio». Maria Romana De Gasperi ha un moto di orgoglio: «Quando si parla di Resistenza, e si fanno tante chiacchiere, bisogna ricordarsi che anche questo è stato resistenza: resistere alle tentazioni, non poter dare a una moglie qualcosa di più. La sera papà traduceva dal tedesco la storia dei papi del Pastor, la mamma gliela batteva a macchina; correggeva bozze, cercava di arrangiarsi così». In che alloggio vivevate? «In un alloggio normale, dietro il Vaticano, eravamo sette in fami- glia. Mio padre è sempre rimasto lì, anche dopo essere diventato presidente del Consiglio. Allora era via Bonifacio Vili, adesso è via De Gasperi». Ma dopo la guerra la vostra vita sarà cambiata. «Noi abbiamo continuato a comportarci come sempre. Io uscivo in bicicletta, mia sorella anche. Mia madre aveva una macchina, ma la poteva usare solo per le uscite che riguardavano il lavoro di papà. Se no, andava in autobus». La figlia di De Gasperi intuisce la domanda in arrivo, la previene. «C'era lo stipendio di Presidente, che era un buono stipendio. Papà lo portava a casa e lo dava alla mamma. Per sé teneva un assegno, che finiva sempre nella tasca di qualcun altro. Non aveva un rapporto facile con il denaro. Quando qualcuno lo raggiungeva sul portone, apriva il portafoglio e dava quello che aveva. Non andava mai in un negozio, non ha mai comprato niente da solo». Che cosa ha significato, per voi, chiamarvi De Gasperi? «Molto. Ma ce ne siamo accorte tardi. Noi ragazze trovavamo i giornalisti alla porta, ci chiedevano come vestivamo, che cosa mangiavamo. Ma che stupidi, dicevamo fra noi, la cosa ci sembrava assurda. Poi mio papà ci insegnò a stare più zitte». Si davano ricevimenti, in casa? «Nemmeno uno. Noi partecipavamo alla vita pubblica, sì. Ma non siamo mai andate in un night, in un posto per divertirci, perché questo per nostro papà sarebbe stato negativo. Si andava a ballare nelle famiglie, in casa di amici, col grammofono a manovella. E un giorno mio papà mi fece capire che anche in una certa famiglia, frequentata dai de, sarebbe stato meglio non andare». C'è una storia, che Maria Romana ricorda da allora, e vale ancora più oggi. «Ci ha insegnato a essere attente nel ricevere regali. Perché ricevere, in una situazione politica come quella in cui eravamo stati gettati, significava dover ricambiare. Un giorno arrivò a casa un servizio d'argento, noi lo stavamo sfasciando, tutte felici. Venne lui, e ce lo fece reincartare pezzo per pezzo; poi 10 rimandò indietro, con una lettera in cui spiegava perché non poteva tenerlo. Un paio di episodi così, e quei regali non arrivarono più. Mio padre accettava invece le cose modeste, anche brutte, mandate dalla gente umile. Questo era il suo modo di fare politica». Un solo regalo grosso accettò: «La casa di Castel Gandolfo, che gli diede il partito, a 70 anni. Dalla de, poteva riceverla. Se l'è goduta solo due anni, in primavera, in autunno. Mamma l'ha poi dovuta vendere, per pochissimo. Papà non aveva lasciato soldi». Quale è stato il momento più difficile nella vita di De Gasperi? «Forse la discussione sul Patto Atlantico alla Camera. Uno dei segretari, Mino Cingolani, gli aveva preparato la possibilità di un rifugio, perché stava correndo un grave rischio fisico. Ma papà non aveva paura. Un giorno, mentre passavamo in macchina davanti a Castel Sant'Angelo, un attentatore gli sparò contro, prese la macchina all'altezza dell'autista. Mio padre stava andando al Consiglio dei ministri, non riferì nemmeno l'episodio». E quale è stato il suo dolore più grande? «La cosa che lo colpiva di più era 11 tradimento di un'amicizia, o di un ideale. Soffrì molto per essere stato messo da parte dalla Chiesa, dopo la fine del partito popolare; non essere più cercato dai circoli cattolici, dopo tutto quello che aveva fatto». Ancora nel 1951 papa Pacelli rifiutò di ricevere la sua famiglia per i 30 anni di matrimonio. Non perdonava a De Gasperi il suo atteggiamento contro l'operazione Sturzo, per le elezioni a Roma. Cosa disse suo padre? «Si vedeva che era addolorato, ma non si è sfogato in casa. Ho sentito il suo dispiacere di non essere sempre compreso in Vaticano. A loro mio padre non sembrava abbastanza deciso a prendere in mano tutto il potere. Rimasero con questo dubbio su un uomo che era cristiano di fede, ma liberale di educazione e di studi. Mio padre rispettava la libertà dell'altro, si richiamava al Risorgimento, e questo in Vaticano non era capito. Neanche oggi». Entravano molti preti, in casa? «Non in modo particolare; se erano amici. Mio padre era credente, nominava Dio in Parlamento; ma non clericale. Ci aveva mandato a scuola dalle suore solo perché ci era proibita la scuola pubblica; ma non ai circoli cattolici: riteneva che l'Azione Cattolica non desse una educazione libera. Un giorno vidi mio padre preoccupato, perché attendeva al ministero un alto esponente del Vaticano, al quale non poteva dire di no, ma non voleva dire di sì. Gli andò incontro e gli disse: "Eminenza, sono molto contento di vederla perché sono certo che non mi chiederà nulla che vada contro la mia coscienza". E l'altro rinunciò a chiedere». Come reagì quando la Camera votò contro il suo ultimo governo? «Sapeva che non sarebbe passato; aveva accettato l'incarico per dovere. Se avesse badato al suo interesse politico avrebbe detto di no. Lo vidi abbastanza amareggiato, in quei giorni. Tutto quello che faceva, doveva guadagnarlo con grande fatica, era un contrasto continuo. Aveva portato il Paese fuori dall'indigenza, lo aveva rimesso su un piano internazionale. La nazione aveva raccolto molto; e lui, per sé, raccoglieva così poco. Aveva iniziato tante cose, e doveva lasciarle tutte da finire. Alcune, come l'unione europea, sono da finire ancora oggi. Quando gli telefonò Sceiba, qui a Sella, per dirgli che la Ced era stata bocciata, lo vidi piangere». Era il 14 agosto 1954, la sua ultima estate, sarebbe morto cinque giorni dopo. Che cosa rimane, oggi, di De Gasperi in Italia? «Forse qualche nostalgia: il desiderio di vedere in politica una linea di onestà, di pulizia, di serietà». Parole fuori corso, oggi, che evocano una storia lontana. Ma qui, a 900 metri di altezza, si possono ancora pronunciare. Giorgio Calcagno e mi Ga- cia». Mantita e, la ente o alenza attiutti i ò o o a » «Un giorno arrivò un regalo d'argento Ce lo fece subito reincartare: doveva essere restituito» Foto grande: Maria Romana a Sella di Valsugana con il figlio e il padre A sinistra: Papa Pacelli Sopra: Francesca De Gasperi In alto, Sceiba «Il maggior dolore: essere incompreso in Vaticano» Un uomo di roccia che sapeva piangere A sinistra, gioco di bocce per Alcide De Gasperi Sotto: Don Sturzo In basso: l'ultimo governo presieduto dal grande statista

Luoghi citati: Asiago, Austria, Castel Gandolfo, Castel Sant'angelo, Italia, Roma