«A casa, in licenza, tagliando la legna i miei alpini aspettavano a Desenzano»

«A casa, in licenza, tagliando la legna i miei alpini aspettavano a Desenzano» «A casa, in licenza, tagliando la legna i miei alpini aspettavano a Desenzano» 1ORNAMMO in pochi dalla Russia, in quella primavera del 1943. Dopo il campo contumaciale a Udine e la licenza, ci ritrovammo a Desenzano dove era il deposito del nostro battaglione, il Vestone. Ci ridiedero in consegna le armi, corredo e zaino come fossimo ancora reclute. E dopo ci accantonarono tra Salò e Gargnano. Le giornate scorrevano via tra le incombenze della vita militare e nelle osterie alte sul lago dove si cercava di allontanare il freddo della steppa e il ricordo dei compagni. Ma non era possibile, anche perché in quei giorni, dopo aver fatto adunata sotto gli ulivi, con il ruolino della compagnia che il furiere era riuscito a salvare, scorrendo nome dopo nome ero incaricato di ricostruire la storia di chi mancava. E poi, anche, dalle valli che sono tra i laghi d'Iseo e Garda venivano i famigliari a chiedere notizie di loro. Ci guardavano con rimprovero, quasi fossimo noi colpevoli della nostra fortuna. Provavo grande tristezza, ma non mentivo: cercavo di dire o far capire la verità. Poi rientrarono al reparto i feriti e i congelati leggeri; sempre troppo pochi, però. Arrivarono anche le reclute del 1924. Ragazzini spaesati e timidi, sempre pieni di fame. Per rimpolpare le compagnie ci raggiunsero anche i vecchi «topi» dei magazzini, dei depositi e dei distretti. Una notte, dopo avere un po' bevuto, il sergente Baroni dei mortai, il sergente Bertazzoli dei cannoni anticarro ed io rincasammo nell'accantonamento dove tutti già dormivano. Facemmo la veglia, radunammo le reclute e, nel silenzio della notte, facemmo cantare e cantammo a piena voce Bandiera rossa. Fu soltanto una bravata o, meglio, una protesta spontanea senza principio o intenzione puramente politica perché grande era allora la nostra ignoranza in questo campo. Ma tutto il paese per il resto di quella notte stette sveglio; i carabinieri che si erano avvicinati al nostro accantonamento non entrarono. La mattina dopo venne qualcuno da Brescia a fare un'inchiesta. Il nostro comandante di battaglione, che con noi aveva vissuto ogni vicenda fin dal fronte occidentale e greco-albanese, mi fece chiamare al Comando. «Sì, è tutto vero», confermai al maggiore Bracchi che vedevo pensoso per quello che avevamo provocato, e che per ordini superiori era stato costretto ad annullare permessi e licenze. Noi tre sergenti colpevoli e puniti Parlammo come poter risolvere il caso nei confronti dell'inquisitore. Infine mi venne l'idea di dire che sull'aria di Bandiera rossa avevamo cantato la canzone dei congedanti. L'ac- cettarono così. Per «punizione» a noi tre sergenti colpevoli comandarono di fare l'istruzione premilitare del sabato fascista ai marinaretti della Gioventù Italiana del Littorio. Intanto a casa mia avevano bisogno di legna per affrontare l'inverno, e avendo il Comune assegnato il legnatico d'uso civico, chiesi un permesso di due giorni. Il maggiore me ne concesse due con un'aggiunta: «Oggi è il 22, parti subito con il primo battello e ritorna lunedì 26 con l'ultimo». Era una festa degli occhi sul battello da Salò a Desenzano, con il sole dell'estate, le ville piene di fiori lungo le rive, e la penisola di Sirmione con la villa di Catullo sulla roccia. Ma tutti i viaggiatori stavano silenziosi e assorti. Erano per lo più sfollati da Milano e forse avevano dentro il lugubre ululato delle sirene d'allarme e il terrore dei bombardamenti. A Desenzano salii sul treno Torino-Venezia. C'era tanta gente in piedi, caldo, puzza. Nel vagone di terza classe dove ero riuscito ad entrare c'erano dei militi della contraerea che cantavano e scherzavano pesantemente con delle ragazze; ma anche donne e bambini, soldati meridionali cupi, operai, anziani tristi. Il treno andava, e pensavo ancora a quei nomi senza risposta sul ruolino e anche agli anglo-americani sbarcati in Sicilia. Gli altri continuavano a schiamazzare. A un tratto come preso da furia gridai: «Basta! Smettetela! State un poco zitti». Furono sorpresi dal mio gridare, e poi uno di loro che voleva fare il gradasso disse una di quelle frasi mussoliniane come: noi tireremo diritto. Risposi a bassa voce, ma scandendo: «Ce ne accorgeremo!». Ci fu silenzio per il resto del mio viaggio. Mio padre venne a dirmelo Da casa andai nel bosco a far legna con i fratelli più piccoli. Un contadino con il cavallo al lunedì 26 luglio ci avrebbe portato la legna nel cortile. La sera di domenica andai a letto pre- sto perché l'appuntamento in bosco era per le 5 del mattino. Non so che ora fosse quando mio padre, che era stato a fare la partita a scacchi con il veterinario, entrò in camera e mi scosse per svegliarmi dal primo sonno. Mi ripetè due o tre volte la grande notizia che inconsciamente in tanti aspettavamo e che non osavamo manifestare: «Il re ha destituito Mussolini, a capo del governo c'è il maresciallo Badoglio...». Come ricordo quel sospiro profondo che mi venne dal petto. E come, dopo che mio padre uscì dalla camera, aprii la finestra e, supino sul letto, con gli occhi spalancati, guardai il cielo stellato fin quando incominciò a schiarire. Andai nel bosco. Camminavo con passo leggero, guardavo gli alberi, i cespugli, l'erba; ascoltavo il canto degli uccelli e il vento tra i rami degli alberi come fossero tutte cose nuove. Avrei voluto cantare, fare capriole, arrampicarmi sugli alberi, gridare. Mai avevo provato un simile stato d'animo. Ma fu breve. Verso mezzogiorno ero a casa con la legna. Dopopranzo ripresi il trenino a cremagliera, il treno Venezia-Torino, il battello Desenzano-Riva. Trovai i compagni che mi aspettavano allo sbarco. Dopo, venne anche l'8 settembre. Mario Rigoni Stern La folla per le strade e, a destra un busto di Mussolini abbattuto dalla gente in festa

Persone citate: Badoglio, Bertazzoli, Mario Rigoni Stern, Mussolini, Ragazzini