Evtuscenko non ci sono zar buoni

Poesia di massa nella sua serata-rivincita Evtuscenko: non ci sono zar buoni Poesia di massa nella sua serata-rivincita MOSCA DAL NOSTRO INVIATO Da cinque anni a Mosca non si vedeva più una serata di poesia di massa, di quelle che i russi chiamano «concerti», ma che in realtà erano grandi assemblee di patiti della parola, del verso, riuniti per ascoltare la musica delle strofe scandite direttamente dalla voce del poeta-personaggio-attoreistrione-divo. Erano, ho detto. E forse saranno. Perché ci voleva Evghenij Evtuscenko per ripristinare una tradizione che sembrava sepolta sotto le ondate dirompenti di fiumi di Coca Cola, di videoclips, di Schwarzenegger e Rambo. Evtuscenko è tornato dall'America, da cui si muovono i maremoti che affondano la cultura russa, per resuscitare la poesia nel suo sessantesimo compleanno. «Non credevo che avremmo sfondato questo muro», confessava l'altra notte, dopo lo spettacolo, tra amici affettuosi che lo festeggiavano nella sua casa sul Kutusovskij Prospekt, proprio dietro l'Hotel Ucraina. «Ma pensa: il 60 per cento dei presenti era giovane. Credevo che, nella migliore delle ipotesi, avrei trovato davanti a me qualche centinaio di scestidesiatniki, quelli della mia generazione. Invece erano giovani». Gli occhi brillano ancora di gioia, come scintillavano sotto i riflettori della grande sala dell'Hotel Rossija, strapiena fino all'orlo. Le barricate dell'agosto '91 Quattromila spettatori che hanno applaudito tiepidamente il capo dell'amministrazione presidenziale, Serghei Filatov, venuto appositamente per leggere un messaggio di Boris Eltsin e per consegnare a Evtuscenko la medaglia di «difensore della democrazia», conquistata sulle barricate dell'agosto 1991. Ma non era serata di entusiasmi politici. Evghenij Aleksandrovic la voleva sua, questa serata-rivincita. Lui, che tante volte si è sentito accusare di opportunismo, ha voluto tornare ad essere ribelle, a suo modo, ora che l'intelligencija russa è di nuovo prosternata di fronte al potere. «Questo tempo non è ancora all'altezza delle nostre speranze», ha esordito secco, senza enfasi, senza invettive, solo con un filo di malinconia non dissimulato nella voce. «So quanti di voi vivono tempi duri...». Ma «dipende da noi andare avanti verso la democrazia», perché «non ci sono zar buoni» che possano tirarci fuori da questo incubo, perché «la democrazia che diventa feroce cessa di essere democrazia». Si capisce che molti dei suoi amici non sono venuti in platea a festeggiarlo. Evtuscenko li cerca facendosi schermo con la mano, chiede le luci in sala, ma trova soltanto Vladimir Sokorov, Marat Tarasov, «la famiglia» di Robert Rozhdestvenskij. Non c'è Bulat Okudzhava, non ci sono tanti altri che «dovevano esserci». Non importa. C'è questo pubblico di «intelligencija diffusa», di abiti dimessi e di redditi esi¬ gui, che conosce a memoria le sue poesie e si chiede che senso ha tutto ciò che è accaduto. Non ci sono i banchieri, i brokers, gli yuppies. «Sono tornato e vedo i vostri occhi spenti, rassegnati. L'entusiasmo lo vedo solo negli sguardi avidi degli avventurieri», dice con voce rabbiosa. E lo applaudono. Poi comincia il torrente fragoroso dei suoi versi, in un silenzio che si fa religioso. L'inno a Majakovskij («noi poeti russi non esisteremmo senza di lui») e l'aspra rampogna contro i suoi «detrattori pettegoli» che nel centenario della nascita si sbizzarriscono sulla libera stampa russa a scovare nell'alcova le ragioni del suo suicidio. E i versi di Baby Yar, che vengono accolti con un'ovazione. Sì, Evtuscenko resta un fenomeno. La testa di Stenka Razin - nella poesia, scritta in altri tempi e con altri bersagli rotola beffarda di fronte ai nuovi zar. Ma non è politica, è qualcosa di più. Diventa una riflessione sulla vita, sulla Russia. Evtuscenko ha scelto con cura quelle, tra le sue mille poesie, da offrire a questo pubblico stranito e incerto. C'è «Gli eredi di Stalin» (1962), e c'è lo sberleffo immodesto dei «Scestidesiatniki», che si vantano della loro sregolatezza di allora, così lontana eppure così necessaria di fronte all'uniformità ossequiosa dei tempi d'oggi. Tempi di libertà autocensurata. C'è l'autodifesa di «L'importante è che non cambi nulla» (1985), contro i piccoli denigratori che accusano la grandezza dei grandi. Untuosi laudatori della mediocrità che non sanno fare carriera se non attraverso le loro delazioni. «Io non ne ho mai scritte». «Io non sono mai stato in nessun partito. Ma voglio essere un militante dell'unico partito che mi piace, quello degli onesti». Ma c'è il tema, ricorrente, della morte e del ricordo. Sessantanni sono scoccati, e non li dimostra. Ma si affacciano ora da ogni riga, da ogni verso. Ogni uomo che muore è un mondo che se ne va. Anche se restano le opere, milioni di gesti, di affetti, di piccole cose quotidiane vanno perduti per sempre. Non uccidere, perché uccidi un mondo intero, ogni volta. Ama, perché amare significa non morire mai. «Net let», non sono anni i tuoi, i miei, se riesci a essere te stesso fino in fondo. Non ci sono capelli grigi sulla tua testa se non smetti di lottare. E il poeta Evtuscenko legge, per la prima volta al pubblico russo, il romanzo «Non morire prima della morte», l'ultima sua fatica, che l'editoria della Russia democratica riuscirà a produrre solo dopo quella dell'America democratica. Più o meno come è accaduto alla colossale Enciclopedia della poesia russa che Evtuscenko ha completato negli Stati Uniti e la cui copia pilota egli agita in segno di vittoria, ma in lingua inglese, davanti al pubblico che applaude e ringrazia. In russo vedrà la luce solo l'anno prossimo. Nei sottopassaggi della piazza Pushkin si vendono solo cattive traduzioni di Ian Fleming. Tira aria di riflusso e il tuono della voce del poeta si smorza in sussurri disperati. E' l'amore che sale in cattedra a guidare le note della nostalgia. Lontane le suggestioni possenti della rivolta contro il potere, quando il giovane leone Evtuscenko trascinava alla prima protesta i giovani che avrebbero sperimentato, dopo le speranze del XX Congresso del pcus, le delusioni dell'invasione cecoslovacca. Bandiera rossa addio L'invettiva contro quei carri armati che «passano sopra il corpo dei soldati che vi stanno dentro», che schiacciano l'intellettuale sovietico prima ancora che la libertà di Praga, risuona come l'eco di un'epoca lontana che appare irreale, ma in cui - sembra dire Evtuscenko - eravamo pur vivi. Nostalgia che si traduce, d'un tratto, in uno scatto di grandezza genuina, indimenticabile. Evtuscenko cerca a lungo nel suo quadernetto rilegato in tela marrone, sepolto sotto cumuli di rose che, ad ogni poesia, salgono sul palcoscenico nelle mani di anziane signore, di timidi giovanotti in giacche sovietiche e improbabili cravatte d'un'altra epoca, di signorine accaldate con camicette spumeggianti create quando ancora Armani e Valentino portavano i calzoni corti. E viene fuori «l'addio alla bandiera rossa». Non c'era impresa più difficile che salutare quel vessillo che scende dal pennone del Cremlino senza confondersi con i «patrioti» che ne hanno fatto il loro emblema. Evtuscenko ci prova, perché non vuole lasciare nulla di non detto. Scende, quel rosso carico di sangue e di dolore, si ripiega su se stesso lentamente, sommessamente. Pare impossibile provare nostalgia. Si volta pagina, evviva!, siamo liberi, evviva! Ma è un mondo intero che sprofonda - Evtuscenko lo sa, come ormai lo sanno tutti quelli che lo ascoltano in sala - e nei sussulti violenti di questa fine c'è altro sangue e altro dolore. Terribile era quel rosso, ma era anche possente, maestoso. Era il segno della grandezza, l'erede di una storia. Non è affondato un comprimario ma un protagonista. Non sparisce un atollo, ma è un continente che annega, è Atlantide che sparisce. E con essa - la voce di Evtuscenko è solo un filo sonoro teso e sottile come una lama - anche gran parte di noi. Applaudono, lo amano come lo amarono quaranta, venti, dieci anni fa. A suo modo ha sempre detto loro la verità, quella possibile. Ma era pur sempre la verità. Giulietto Chiesa «Questo tempo non è ancora all'altezza delle nostre speranze. Il solo partito in cui voglio militare è quello degli onesti» Centinaia di giovani festeggiano a Mosca i suoi 60 anni: «Vedo solo entusiasmo negli sguardi avidi degli avventurieri» Premiato da Eltsin, sfida i nemici e esalta l'esempio di Majakovskij Nell'immagine grande, Evghenij Evtuscenko: una serata con migliaia di persone per festeggiarlo a Mosca. Sopra, la Piazza Rossa, qui accanto Jan Fleming, il vero best seller (in cattive traduzioni) nella nuova Russia. A sinistra, il poeta Vladimir Majakovskij