Varsavia la paura viene dall'Est

Varsavia, la paura viene dall'Est FOGLI DE BLOC-NOTES Varsavia, la paura viene dall'Est VEVO già conosciuto a Roma il «premier» di Varsavia, la signora Hanna Suchocka: in una delle case Frassati che portano il culto della Polonia, e della libertà polacca, nel sangue. Elegante, misurata, accattivante: pronta a rispondere su tutti i problemi senza mai dire una parola più del necessario. Senza nessuna sbavatura retorica. Una Polonia priva di enfasi. Abituata alla navigazione difficile, e tormentata, fra Walesa, il «maresciallo Walesa» come lo chiamano oggi i politici polacchi ormai in divorzio da lui, e Mazowiecki, il leader dell'«Unione democratica» cui la signora - primo ministro di Varsavia - è fedele, ma senza chiusure e senza inibizioni. Il che le permette di avere buoni rapporti anche col palazzo del Belvedere. La rivedo adesso nell'edificio governativo di Varsavia, già centro della dittatura comunista. Ancora più efficiente; ancora più perentoria. Esce da una crisi di governo, che le ha fatto mancare la fiducia per un solo voto; è già entrata in campagna elettorale. Assorbe tutti i poteri: in Polonia, diversamente dall'Italia (con cui pure il confuso ordinamento polacco ha tanti punti in comune), il Parlamento cessa di esistere nel momento stesso in cui il capo dello Stato firma il decreto di scioglimento. Nessuna commissione può più riunirsi, neanche per provvedimenti d'urgenza. Nessuna legge può essere varata. E' una specie di vuoto costituzionale, che si unisce al vuoto politico da tempo aperto in una Polonia frammentata, sminuzzata, parcellizzata con trenta partiti (cui si cerca di porre rimedio col barrage). Ma la signora Suchocka ha grande fede nella buona stella, nella magica stella della Polonia. «L'essenziale è riattivare l'economia, vincere inflazione e disoccupazione. Proseguiamo su questa strada con grande determinazione». In effetti la grande partita in corso in Polonia è fra liberisti e collettivisti. 11 solidarismo, cominciando da quello di Solidarnosc, non basta più, neanche al suo fondatore e primo leggendario animatore, appunto Walesa, obbligato a far quadrare i bilanci, a rimettere i conti in sesto. E colpito al cuore dagli infiniti scioperi che gli vengono scatenati contro ogni giorno: ultimi quelli di uno dei gioielli del nuovo regime, la Fiat polacca, la Fom di Tychiy. E in genere, dovunque il sindacato è forte, come nelle grandi imprese della Slesia o di Stettino, la mania degli scioperi dilaga. La Polonia manca di una borghesia imprenditoriale e finanziaria, per le stesse ragioni per cui le è mancata una rivoluzione liberale. Dispone, fin dagli anni del primo dopoguerra, di una piccola borghesia di Stato, sempre reclinata sull'assistenzialismo pubblico. Jocek Kuron, il ministro del Lavoro che conosce come pochi l'esperienza dell'opposizione al comunismo, è incline a stabilire un certo collegamento fra ieri e oggi, fra la pseudostabilità comunista e la resistenza a cambiare la mentalità che caratterizza oggi la Polonia. «Dei vecchi tempi - ama dire Kuron - si ricorda di più la sicurezza psicologica e morale. Si lavorava poco. Si guadagnava poco. Ma lo Stato pensava a tutto. La libertà invece vuol di¬ rczstf«sMsclp a à e i a a ¬ re responsabilità, impegno, sacrificio, libero mercato, valutazione dei meriti e promozione sociale dei migliori e dei più intraprendenti». Una meta, confessiamolo, ancora lontana. «Cambiare la mentalità». E' lo slogan della signora Suchocka. Ma si scontra contro difficoltà spesso insuperabili. E nel sindacato, cominciando da Solidarnosc, stanno prevalendo i populisti-reazionari, coloro che rimpiangono il passato, che esaltano il clericalismo, l'odio degli intellettuali e l'antisemitismo. Per fortuna la Chiesa cattolica, che avverte le rinascenti correnti ispirate al tradizionalismo reazionario in nome della Croce, si è affrettata proprio in questi giorni a liberare il monastero benedettino di Auschwitz. E' un segnale importante contro ogni ripresa - sempre temibile in Polonia - di odio agli ebrei. Il confine fra il passato e il presente è indefinibile in Polonia. Anche nella vita delle Università, ricche di tradizioni che sintetizzano il mondo slavo e il mondo germanico. Sono in visita all'Università di Torun, la città di Copernico, nell'Ovest del Paese, un prezioso frammento di Medioevo intatto sfuggito alla guerra devastatrice. Mi accompagna il presidente del Senato polacco, August Chelkowski, un umanista, un genti luomo. La città è tutta incentrata sulla sua Università (e sui relativi campus): Università nata nel 1945 e quindi abbastanza giovane. Ma considerata la seconda della Polonia per anzianità Perché per vari secoli Torun ha alimentato con i suoi professori, reclutati nelle proprie scuole, l'Università di Vilnius, l'attuale capitale della Lituania cui la Po Ionia non ha mai rinunciato nel cuore. Tengo la prolusione su «Italia e Polonia nell'Ottocento», durante il conferimento della laurea honoris causa in Storia. E l'ap plauso più forte mi giunge quando ricordo le tre componenti del la «Giovine Europa» di Giuseppe Mazzini: l'Italia, la Germania la Polonia. Tre Paesi nessuno dei quali (allora: 1834) arrivato all'indipendenza e alla libertà dello Stato, tutti Paesi oppressi o divisi. Ma rappresentativi ognuno delle tre grandi razze: l'italiana, la germanica e la slava. Solo la rappresentanza della razza slava appaga la Polonia, in sieme col richiamo a Mickie wicz. «Siate le guide del pensiero slavo di cui i vostri poeti sono stati i profeti. Là sta la vostra sai vezza e la nostra». Lungo colloquio col ministro degli Esteri, Krzysztof Skubiszewski. «I rapporti con l'Ucraina sono pessimi; e quelli con la Russia indefiniti». Nessuno giocherebbe una moneta d'oro in Polonia sul futuro di Eltsin, ma nessuno, ■a Varsavia, ritiene fugate le minacce da Est, nonostante lo stato di frantumazione dell'ex impero sovietico. «La Russia - sottolinea il ministro - cerca una zona di sicurezza alle sue frontiere. Qualcuno dice che si limiterà ai territori della vecchia Unione Sovietica, salvo le Repubbliche baltiche; altri comprendono le Repubbliche baltiche e tutti i Paesi del Patto di Varsavia». E' una confessione rivelatrice. L'occhio della Polonia è sempre, disperatamente, volto ad Est. Giovanni Spadolini