Nabis la setta dei pittori burloni

Inquieti, mistici e goliardi: Zurigo riscopre gli artisti-sacerdoti della modernità Inquieti, mistici e goliardi: Zurigo riscopre gli artisti-sacerdoti della modernità Nabis, la setta dei pittori burloni Amano Baudelaire, temono Cézanne nella Parigi delle grandi Esposizioni m-rl ABIS, si ribattezzarono: n dall'ebraico nebiim, i prob feti. Profeti di una mo» dernità che non potevano nemmeno ipotizzare, ma che, precoci, avvertivano bruciare come una febbre. Quasi tutti compagni di scuola, al Liceo Condorcet, pronti a presentarsi l'un l'altro o legati a quel singolare personaggio del mondo teatrale che fu Lugné-Poe, il primo ad introdurre Ibsen, Strindberg, Maeterlinck a Parigi. Un clima, il loro, soprattutto: od una setta segreta, che tramava tra linguaggi cifrati, prediligeva le cerimonie goliardico-massoniche, si lasciava influenzare dalla teosofia, dalla Blavatskij, dai Grandi iniziati di Schuré. Abbigliati in paramenti pontificali (il ritratto di Ranson firmato da Sérusier lo fa assomigliare ad una specie di Vescovo gauguiniano con gli occhialini da intellettuale alla Zola), si ritrovavano ai Tempio, ovvero il salotto di casa Ranson (l'unico regolarmente sposato: Maurice Denis aveva allora diciott'anni) e Madame France Ranson era «la Lumière du Tempie», la Luce. Amavano i soprannomi, le definizioni lirico-criptiche. C'era il «Nabi obéliscal», a causa della sua allampanata figura: l'olandese Verkade, che dopo aver scoperto la «luce del paradiso» del «mio» Fra Angelico e dopo non poche crisi mistiche diventa monaco col nome di Dom Willibrord. L'«étranger» che veniva dall'Ungheria, Rippl-Ronai. Il «Nabi dalle belle icone», cioè il giovanissimo ma subito dottissimo Maurice Denis; Pierre Bonnard detto il «Nabi japonard» per la sua predilezione per le stampe orientali, e poi il «Nabi dalla barba rutilante», il già carismatico Paul Sérusier, che tornava da Pont-Aven e nei suoi quadri tradiva l'impronta di fuoco del genio di Gauguin. Erano tutti legati all'Accademia Julian, in cui avrebbero anche insegnato: spesso allievi di celebri pompier come Gervex, Cabanel, Bouguereau. Ma proprio per questo volevano evadere, rompere con la tradizione, bucare l'educata grammatica narrativa della tela. Guardano a Gauguin, anche se trovano le sue soluzioni cromatiche un poco «simpliste» e tornano al museo per corroborare quella lezione programmaticamente «rudimentale» (sono artisti di città, loro). Hanno già intuito l'importanza di Cézanne, ma ne sono come allarmati, sedotti e spaventati dalle sue forme «assurde e splendide»: ancora «troppo ricche, per noi» come ammetterà il prensile, vero teorico del gruppo, Maurice Denis. Ed è lui ad aver profferito questa folgorante, rivoluzionaria affermazione manifesto: «Ricordarsi che un quadro, prima di essere un cavallo in battaglia, una donna nuda o un qualsiasi altro aneddoto, è essenzialmente una superficie piatta ricoperta di colori, organizzati con un certo ordine». Questo a vent'anni, nel 1890. Euforia per il centenario della Rivoluzione, clima positivista, il cinema nascente, la Tour Eiffel e la Gare d'Orsay in gestazione. I Nabis portano una vena inquieta, interrogativa, misticheggiante nella Parigi delle Grandi Esposizioni. Amano Baudelaire, che predica «un'arte sintetica ed abbreviata»; ma in realtà sono in sintonia con Mallarmé: «Nominare un oggetto significa sopprimere tre quarti del godimento del poema, che è fatto dalla felicità dell'indovinare poco a poco: suggerirlo, ecco il "sogno"». Ed è magnificamente congegnata la prima sala di questa splendida mostra su Die Nabis, Propheten der Moderne, alla Kunsthaus di Zurigo (imparino, i nostri architetti organizzatori). Perché magnetizza immediatamente quell'urgente bisogno tutto nabis di uscire dalla tela, di rompere l'illusione claustrofobia della prospettiva classica, che fingeva una profondità immaginaria. Uno sfondare, un appiattire che sarà poi di Matisse: magari mimando la luce delle vetrate, o le pelosità esuberanti degli arazzi vegetali. Dove fermarsi? Nei soffitti che Denis studia per gli amici (tra cui anche Chausson, il musicista) il colore, come in un Tiepolo del Novecento, affonda dentro la vegetazione, annega trionfalmente. La lezione delle affiches di Mucha, lo choc visivo degli arabeschi giubilanti, il gusto dei castoni smaltati, cloisonnés come dicono i francesi: semplificazione delle sagome e respiro della materia. E non è sbagliato im¬ battersi sin dall'inizio nel vasetto istoriato di Bonnard (influenza della vasaria greca?), nella scatola intarsiata con gatto in pirogravure di Vallotton, nei piatti di ceramica di Vuillard, scompigliati come all'ultimo istante da una furia ventosa, prima di concederli alla morsa cemeteriale del forno. Perché si tratta non di grandi artisti che si degnano anche di giocherellare con le arti applicate, ma di anime inquiete, che importano nella grande pittura le scoperte che hanno incontrato pasticciando, «sporcandosi» le mani con la materia. Iniziati, che si preoccupano però di poter comunicare, di meritarsi la popolarità. Così è molto importante la lezione della grafica, soprattutto della formidabile Révue bianche dei Nathanson, soggiogati a Misia, la Musa «raggiante e sibillina» dell'intero gruppo. Una rivista che unisce Uba di Jarry a Kahn l'inventore del verso libero, il commediografo Tristan Bernard al populista Leon Blum, al viperino Lorrain, che sfidò Proust a duello. E poi la decisiva influenza delle stampe giapponesi: non tanto l'esotismo della decadenza, quanto il magistero grammaticale della tecnica. I respiri di neve e di mari fermi, striati di sampan, gli aplat dei candidi kimono e dei tatami. Impressionante vedere affiancate le stampe di Utamaro o Hiroshinge usate dagli occhi di Denis o Bonnard, precoci collezionisti - affiancate alle loro litografie: si scoprono analogie impensate. L'esprit da café chantant miscelato con il teatro Kabuki. Il bisogno buddista di una metrica del silenzio, di una elementarietà innocente: che induce Bonnard ad illustrare un alfabetiere, oppure un solfeggio per bambini. La curvatura sinuosa, il fraseggio come il bambù, che riempie la scena. La firma verticale, a ideogramma di Denis. La mostra è intelligentemente divisa in topoi iconologici: i giardini, gli interni, gli incantesimi. Bonnard e Vuillard travasano negli interieur (omaggiproustiani alle atmosfere sospese di Vermeer o De Hooch) vegetazioni d'appartamento o ramages fatti di stoffe o tappezzerie: le anatomie si stemperano in una sorta di geometria sentimentale, gli oggetti si compenetrano. Pianoforti, tende, specchi, quadri nei quadri: formano come delle grotte, degli anfratti dove le ombre inscenano pezzi indecifrabili di grand guignol domestico. E poi l'immagine chiave della donna che legge, il volto reclinato, la plaquette geometrica del libro, ed il cono pulviscolare della lampada all'acetilene, che scoppia di luce solidificata quasi un felino da accarezzare. Come un'istantanea che ruba l'attimo casuale, frammento di vita che transita per la strada (la poetica baudelairiana della folla). Lo splendido paravento di Bonnard, lago di latte su cui si iscrive la reiterata liturgia di fiacre al Bois e la processione a damier delle balie: sfugge ad un ra- gazzino un cerchio che rotola sul bianco, ed è l'istante lirico che si imprime come una firma. Un ansimare sospeso, incantato, che darà coraggio a De Pisis. E' significativo averli così tutti di fronte, i Nabis (anche i minori: Ibees, Lacombe, Roussel), ognuno avviato per il suo sogno. Lo svizzero Vallotton, che proviene dal nero anche romanzesco delle sue xilografie, ed imprigiona sotto la glassa minerale delle sue superfici di diaspro maligno un'inquietudine bruciante. Bonnard, che con i suoi impaginati svagati, indolenti {Farniente è il titolo di un suo quadro) e le anatomie marinate, sfatte nella pasta snervata del suo pastellato coniugale, si immerge ogni volta, come un bambino impegolato con un bignè, in un'intimità odorosa, intessuta di sughi, umori, suffumigi. Vuillard lascia invece fiorire nei suoi scorci la muffa rassicurante d'una tappezzeria metafisica che lo protegge dal mondo. Maillel, prima di ispessirsi come scultore alla Bourdelle evoca - secernendo da sé i colori dalle erbe - un mondo citrino e d'amarene, turbato da ninfe indecise tra Lewis Carroll e Balthus. Sérusier, con i suoi colori teneri, alla Puvis, recitati, anzi, biascicati come preghiere: la raccolta delle mele che pare un funerale. E Denis, l'araldico, che ritrova gli sguardi mistici di Redon ma li dilata in un mistero ancora più sordo, torbido, intricato in quei boschi che sono metafora vibrante del nascondimento perpetuo: «L'arte deve santificare la natura». E i suoi volti lunghi, impenetrabili annunciano già, impercettibilmente, l'avvento del periodo blu di Picasso. Marco Vailora Lotta alla tradizione dal «vescovo» Ranson al «monaco» Verkade Un dipinto di Pierre Bonnard. Nell'immagine grande, nudo di Felix Vallotton. A destra, ■ Baudelaire

Luoghi citati: Parigi, Ungheria, Zurigo