PAOLO MATTHIAE

il viaggio «Così ho costretto gli storici a riscrivere l'antichità» il viaggio «Così ho costretto gli storici a riscrivere l'antichità» PAOLO MATTHIAE ROMA DAL NOSTRO INVIATO Siria settentrionale, estate '78. Prima inquadratura, campo lungo. Una piana devastata dal sole, battuta dal vento, colore d'argilla. Qua e là punteggiata di teli, le colline artificiali che nascondono civiltà sepolte. Zoom, primo piano. Un gruppo di archeologi si aggira fra le rovine di un sito antichissimo. Calpesta un pavimento. Primissimo piano, voce fuori campo: «D'improvviso si apre una crepa. Scorgiamo una cavità sotterranea, ci caliamo. Tutt'intorno, ricavate nella roccia, una serie di tombe: la necropoli reale». Gioielli, armi, vasellame. Dissolvenza. Non è la sceneggiatura dell'ultimo Indiana Jones. E' uno dei colpi a sensazione che hanno scandito la storia degli scavi di Ebla, splendida capitale fiorita fra il III e il II millennio a. C, situata in posizione strategica lungo le rotte commerciali che dall'Estremo Oriente conducevano all'Egitto e dalla Mesopotamia sboccavano nel Mediterraneo. Paolo Matthiae, il capo di quella e di tutte le altre spedizioni sulla collinetta di Teli Màrdikh, 60 chilometri a Sud di Aleppo, non ha la frusta né il cappellaccio di Harrison Ford. Romano di lontane origini tedesche, durante l'anno accademico insegna Architettura e storia dell'arte del Vicino Oriente all'Università La Sapienza, ma ogni estate parte per la Siria. Proprio in questi giorni si prepara per la trentesima campagna consecutiva. In un torrido pomeriggio capitolino, seduto in giacca e cravatta nello studio soffocato dalle carte, l'uomo che ha legato il suo nome al più importante exploit archeologico del dopoguerra racconta come, ancora giovanissimi, si può diventare famosi in tutto il mondo, e costringere gli storici a rivedere il quadro generale dell'antichità. Flashback. E' il luglio del 1963 quando Matthiae arriva per la prima volta in Siria. O piuttosto «ritorna». Ha 23 anni. «Partecipavo a una campagna in Turchia, più che altro un modo per avvicinarmi alla mia "patria nel cuore". Mi presi una decina di giorni per vedere i siti di scavo della Siria e del Libano. Prima tappa Aleppo, che a quei tempi era una delle città arabe più belle, con una spettacolare cittadella medievale. Si respirava ancora il fascino dell'Oriente più vero. Per me significava entrare nel sacrario della grande archeologia». Nel museo locale Matthiae è incuriosito da una vasca di basalto scolpita con figure di leoni: l'aveva trovata per caso un contadino a Teli Mardikh, qualche anno prima, e i siriani l'avevano datata intorno al 900 a. C; Al giovane studioso, da poco laureato con una tesi sulla scultura della Siria antica, pare impossibile: «Doveva essere molto più antica, mille anni almeno. Ma se era più antica, questo era un fatto stupefacente, perché nessuno aveva mai trovato nulla di simile, di quel periodo, né lì né altrove: come appurammo in seguito, era un arredo liturgico tipico di Ebla. Chiesi di vedere il luogo del ritrovamento e rimasi esterrefatto dall'imponenza del teli. Ne fui attratto. Dalla ceramica di superficie capii che il sito doveva risalire alla fine del III, inizi del II millennio». In quel tempo la Bibbia non era ancora stata scritta, la guerra di Troia era lontana. Matthiae ottiene il permesso di scavare a Teli Mardikh. E un peccato di giovinezza fa la sua fortuna: «Solo un archeologo inesperto, un po' incosciente, poteva chiedere la concessione di un sito così vasto. Quasi 60 ettari: al confronto la collina di Hissarlik, quella di Troia, è poca cosa». L'hanno chiamato lo «Schliemann moderno», per il carattere romantico, un po' ottocentesco, della sua impresa. Ma lui scuote il capo: «Il mio mito è stato sir Léonard Woolley, l'autore degli scavi più affascinanti del secolo. Dopo aver scoperto quasi da solo i resti di Ur, si spostò a Alalakh, vicino a Antiochia, fra Siria e Turchia. Qui lavorò fino al '48, portando alla luce per la prima volta in quella regione testimonianze del 1700 a. C, contemporanee al regno di Hammurabi a Babilonia. Quando scelsi Teli Mardikh non cercavo Ebla, che si supponeva dovesse trovarsi più a Nord, in Turchia, se non nella valle dell'Eufrate o sul Mediterraneo; lo scelsi perché mi pareva un sito adattissimo per seguire a ritroso la storia che a Alalakh si fermava alla prima metà del II millennio». Gli scavi partono nell'estate del '64. Matthiae si è appena sposato, a luglio, con un'ex compagna di corso, Gabriella Scandone, che fa l'egittologa ma da allora non si è persa una sola delle campagne in Siria. Dopo alcuni anni di routine, nel '68 le pale incocciano nella prima grande sorpresa, l'effigie di un signore della città. «Un tozzo di statua, databile al 1900 a. C, con un'iscrizione in lingua accadica e caratteri cuneiformi che diceva: Ibbit-lim, re di Ebla». Per gli archeologi è un tuffo al cuore: quella che stanno scavando è la misteriosa città distrutta da re Sargon di Akkad e poi dal nipote Naramsin intorno al 2300 a. C, risorta più splendida di prima, di nuovo annientata dagli ittiti nel 1600, quindi definitivamente scomparsa dalla faccia della terra e dalla memoria degli uomini. Si era persa traccia persino del toponimo, mai più citato dal 1300 a. C. Fino a quando nel secolo scorso furono decifrati alcuni documenti di Sargon che elencavano la città fra le conquiste del grande sovrano. Poi è venuto Matthiae a ricongiungere il nome con le rovine. A Teli Mardikh le scoperte si incalzano, le notizie dei nuovi ritrovamenti fanno il giro del mondo. Matthiae, archeologo «freddo», non si esalta. Eppure in qualche caso l'impatto non può non essere fortissimo. Come quella volta che il tocco di un invisibile Steven Spielberg porta alla scoperta della necropoli reale del 1800 a. C, sotto il Palazzo del principe ereditario. Ma il «culmine emotivo» era venuto tre anni prima: «L'archeologia moderna non riserva colpi di scena, diluisce le sorprese, lascia il tempo di abituarsi alle scoperte. Per esem¬ pio, la missione di André Parrot ci mise quattro anni, dal '32 al '36, per riportare alla luce gli archivi di Mari, sull'Eufrate». Invece quella volta... Matthiae ritorna a quel palpitante settembre del 1975. «C'era qualcosa nell'aria. Ci rendevamo conto che si stava avvicinando un'importante scoperta epigrafica, perché da qualche giorno venivano fuori diverse tavolette di argilla. Ma non immaginavamo quel che ci attendeva. Si procedeva per quadrati di scavo di 4 metri per 4. A un certo punto, sul pavimento di quella che doveva essere stata una stanza, troviamo un ammasso di tavolette incise. Decidiamo di aprire il quadrato attiguo: le tavolette cominciano a apparire a 60 centimetri dalla base del pavimento. Possibile, 60 centimetri di tavolette? Quella notte non riuscii a dormire. L'indomani ci accorgemmo che più si scavava e più si trovava. Avevamo localizzato gli archivi reali del 2300, incendiati dalle armate di Sargon e così miracolosamente conservati dal fuoco, che aveva cotto le tavolette in origine conservate crude». Il primo problema che si pose fu insieme strategico e umano: «Si avvicinava il momento del ritorno in Italia. Potevamo cominciare il lavoro, con il rischio di doverlo interrompere a metà? I tombaroli sono anche in Siria. E nel frattempo, che fare? Informammo il governatore, e lui si mostrò entusiasta. Si offrì di mandarci la polizia. Meglio di no, dissi, i miei operai siriani (dai 50 ai 100, in genere) avrebbero pensato che non mi fidavo di loro. Eravamo una quindicina, decidemmo di organizzarci in gruppi di tre: per ogni gruppo, a turno, otto ore di scavo, otto ore a casa, a pulire e catalogare i pezzi, e otto ore di riposo. Il lavoro doveva procedere a ciclo continuo, giorno e notte». L'abitazione degli archeologi si trova a 400 metri dal teli, alla periferia del villaggio. «E' una costruzione di pietre e mattoni rivestiti di intonaco e fango, con una ventina di camere allineate intorno a una grande corte centrale, e un secondo cortile più piccolo circondato dai magazzini. In una spedizione archeologica l'omogeneità del gruppo è essenziale. Si vive insieme per alcuni mesi, si sta in tre per stanza. Ma in quei giorni, per fare spazio ai reperti, ci adattammo a stare più stretti, a riposare ammassati, con i frammenti dell'archivio reale che straripavano da ogni parte. Dormivamo sognando tavolette. In due settimane il lavoro fu completato: se fosse durato di più, sarebbe stata la fine della missione per schiantamento. In tutto avevamo recuperato duemila tavolette intere, cinquemila frammenti grossi e migliaia di altri più piccoli, per un totale di 17 mila numeri di inventario». Adesso l'archivio reale di Ebla è riordinato nel museo di Idlib, il capoluogo della regione. «Il nostro ambasciatore a Damasco, Bucci, ci invitò a cena. "E' un grande avvenimento - disse -, ne ho la prova sicura. Ecco qui: l'ambasciatore di Francia mi ha fatto le congratulazioni, dice che è la scoperta del secolo. E se ce lo riconosce un francese..."». Le tavolette fornivano una quantità di informazioni sull'organizzazione politica, sui rapporti giuridici e economici, I sulla vita quotidiana. Ne usci¬ va confermata l'ipotesi iniziale di Matthiae: che la Siria del II e III millennio, lungi dall'essere una regione periferica e barbarica, chiusa fra le grandi civiltà della Mesopotamia e dell'Egitto, era invece la sede di una cultura in nulla inferiore a quelle, con espressioni artistiche da fare invidia a Babilonia. «Le autorità di Damasco colsero subito l'importanza del ritrovamento, a differenza di quelle italiane: solo Ruberti, allora rettore della Sapienza, mostrò interesse e si diede da fare per procurarci nuovi finanziamenti. Qualche anno dopo fui ricevuto dal presidente Assad, e di lui mi colpì una bizzarra finezza: si disse lieto per due ragioni, perché la scoperta era opera di archeologi di un Paese amico, e perché era avvenuta nel periodo della piena indipendenza della Siria». Happy end, il film è finito. Siamo di nuovo in casa di Matthiae. «I rapporti con gli arabi sono sempre stati ottimi - riprende l'archeologo -. Anche nei momenti di più acuta tensione internazionale. Anche quando si diffusero certe illazioni fantasiose, secondo cui il testo delle tavolette avrebbe avvalorato l'idea di un remoto insediamento ebraico in Siria: il che poteva spingere il sionismo estremista a avanzare nuove pretese territoriali. Si era all'epoca degli accordi di Camp David, avversati dai siriani. E la stampa americana scrisse nel modo più volgare che Damasco non voleva pubblicare il testo delle tavolette, che anzi aveva intenzione di distruggerle, che noi eravamo tenuti in ostaggio. Mosca sobillava i siriani. Con tutte queste falsità c'era il rischio che da un momento all'altro le autorità ci revocassero la concessione. Invece non accadde nulla, furono molto corretti». Ma anche il rapporto con la gente di Teli Mardikh, un migliaio di abitanti, è stato fondamentale: «Siamo considerati una parte del villaggio. Quando arrivo, io al guardiano non dò la mano: ci abbracciamo. Per le sue figlie mia moglie è come una zia. Una volta mi è anche toccato risolvere una lite fra due dei miei operai: non volevano che i loro figli si sposassero, io li ho invitati a sentire i due giovani, in particolare la ragazza. Alla fine mi hanno detto: "Se tu sei d'accordo, le nozze si faranno"». Una bella responsabilità. Anche per questo Matthiae dice che una spedizione archeologica è prima di tutto un'esperienza umana, in cui l'affiatamento del gruppo e l'incontro con gente di costumi diversi si unisce al fascino di un mestiere rimasto fra i pochi a unire lavoro manuale e lavoro intellettuale, il libro e la cazzuola. E siccome Ebla era la città di Ishtar, la grande regina del cielo - nota ai sumeri come Inanna, Astarte per i fenici, Afrodite per i greci, e per i latini Venere -, qualche trama impalpabile è ancora attaccata alle pietre, e a chi vi incappa può accadere di restare invischiato nelle antiche arti della dea. «Nascono degli amori, a volte diventano duraturi. E' naturale. Con noi ci sono ragazzi di vent'anni, colleghi di università. La nostra missione è celebre in Oriente per l'avvenenza delle sue donne. Una volta un collega belga mi ha detto: "Voi ricevete molte visite, ma non vengono per gli scavi, vengono a vedere le signore di Ebla"». Non è Indiana Jones, però... Maurizio Assalto Amori e scavi: «Quanti giovani si sposano nella città di Venere» L'archeologo romano: «Solo un incosciente come me poteva scavare un posto così vasto: Troia al confronto era niente» Gioiello appartenuto al «Signore dei Capridi» Foto grande: Paolo Matthiae a Ebla. Sotto: il Palazzo Settentrionale A sinistra: Schliemann, In alto a destra: Indiana Jones. Paolo Matthiae tra i tesori di Ebla. Aveva soltanto 23 anni quando giunse per la prima volta sulla collinetta di Teli Mardikh