Nobili: così cerco di resistere in carcere

Nobili: così cerco ili resistere in carcere Nobili: così cerco ili resistere in carcere «Leggo Padre Pio e faccio la comunione tutti i giorni» LE MURA I Ieri, una delegazione guidata dal deputato Roberto Formigoni si è recata nel carcere milanese di San Vittore. Del gruppo faceva parte Renato Farina, giornalista del Sabato. A lui abbiamo chiesto una testimonianza-racconto. L cesso alla turca dove il mio amico Gabriele è morto è quello là. Ti devo lasciare solo un attimo?». Vittorio Mariconti gira la sua schienona con canottiera nera e scoppia in lacrime. «Ho sfondato l'uscio, e l'ho visto lì. Ha usato anche le pagine di giornale di "Repubblica»» per costruirsi il cappio. L'ho tirato su. C'è stato un rumore di scoppio. L'accappatoio era aperto e il suo petto era viola. Morto, ohi, morto. Ohi, ohi, Gabriele, Gabrielino nostro, me lo hanno ammazzato». Un orrendo budello di mattonella rossa. Dal lavandino si diparte un tubo artigianale di bottiglie di plastica San Bernardo. Il fu presidente, anzi il fu ex presidente dell'ottava sorella del petrolio mondiale, Gabriele Cagliari, con gasdotti, oleodotti, metanodotti ha curato lui stesso questo capolavoro di ingegneria da cesso con il suo compagno di galera Vittorio. Si apre il rubinetto e l'acqua cade nel buco nero rimbalzando come un lieto ruscello. I suoi occhi dietro la plastica del sacchetto vedevano nero, nero dentro e nero fuori. Ma almeno la morte è stata gentile con lui. Gabriele Cagliari non ha fiori sul luogo della sua scomparsa, ma basilico, mazzi di basilico dappertutto, come nei racconti di Boccaccio, a San Vittore la morte è profumata così. Basilico, e tra un attimo odore di soffritto. Vittorio piange ed appoggia la sua manona tremante di dolore sulla parete, anzi sul bel rosa di una favolosa ragazza nuda del calendario di Max. E' tra le ultime cose che ha visto Cagliari. «Gli ultimi giorni era scorbutico, sconfortato. Se ne stava sdraiato nel letto, e non parlava», dice l'altro compagno, un napoletano in braghe bianche. C'è Formigoni, e vuole capire se può fare qualcosa per lui. «Sono Sivo Ranieri» dice «prenda nota onorevole Formicone». C'è la biblioteca di Gabriele Cagliari, in questa cella del quinto raggio, destinata a detenuti comuni. Era l'unico eccellente lì dentro. Dalle celle si affacciano ragazzi africani. Lì c'è uno del Ghana per cui Cagliari spese le ultime parole. Processato e condannato senza in- terprete quel ragazzo. Nessuno capiva nulla. Uno sbadiglio, la galera. Vittorio tira fuori l'ultimo libro letto da Cagliari: l'edizione del Club degli editori con il «Candido» Leonardo Sciascia messo davanti a quello di Voltaire. Usava come segnalibro un foglietto che ho rubato. Forse le ultime cose scritte da Cagliari. Sono tanti numeretti, Vittorio dice: «Ci ha insegnato il bridge. Dev'essere il punteggio. Giocavamo con il morto». Capisce che la parola morto non va bene: «Non volevo, scusate». Ecco altri libri: Ugo Foscolo, Quasimodo, un libro di etimologia di Giacomo Devoto, «Un uomo» di Oriana Fallaci. Un pacco di quotidiani. «Sopratutto "Il Giorno", il giornale dell'Eni, aveva per Paolo Liguori una stima sconfinata, l'unico che parlava di Cagliari dimenticato in galera». Mariconti ha scritto lettere al suo amore per raccontare che il suo amico non c'è più. Tutto è accaduto alle 9 e un quarto di mercoledì. La cella era vuota, e Cagliari era chiuso in bagno. Lui stava dall'altra parte del corridoio a battere a macchina qualche lavoretto. «Non esce più dal bagno, quello» pensa Vittorio. Ma non osa chiamare la guardia che gli apra e così possa andare a controllare. Ha raccontato tutto al giudice Gherardo Colombo. «E' alto, superiore, gli manca l'aureola, ma così distante». Gli spiega e gli dice che però non si fa così, che non dovevano lasciarlo lì dentro. Alla sua amata scrive più bruscamente: «Me l'hanno ammazzato». Alle 9 e 35 ha chiamato la guardia. E la storia era già finita. A San Vittore siamo entrati alle quattro di pomeriggio. «C'è un'aria strana», dice subito Formigoni che qui pare di casa. «E' tutto immobile». Ieri i detenuti hanno inscenato una mini rivolta. Nella confusione un ragazzo serbo, nessuno ci dice il nome, ne ha approfittato per ammazzarsi. E adesso aspettano tutti qualcosa di magico, forse un miracolo. Come se la morte di Cagliari e il suo povero bis fossero un'offerta presentata dal mondo delle tenebre a un qualche Dio per placarlo. San Vittore ha la forma di una stella. E al centro c'è la rotonda dove sta l'altare di marmo. Le guardie azzurre gareggiano in immobilità con le statue del Sacro Cuore di Gesù e della Madonna. Cade subito una chiave gigantesca e il rumore rimbalza lontano, oltre le porte. Ne attraversiamo sette prima di giungere al celebre VI Raggio. Chiediamo di Nobili. Da oltre le sbarre si sente una voce gentile e flautata: «Chi mi cerca? Non entrare Formigoni che mi metto le scarpe». E Nobili se ne esce. E' un'anima lunga con la camicia bianca a righe blu. Ha un'eleganza ascetica. I secondini si tirano indietro dinanzi a questo animale sacro che avanza come una giraffa malata. Ricorda qualcuno, ma chi? «Ehi, la troviamo bene», buttiamo lì. «Sono serenissimo e tranquillissimo», dice. Lo ripeterà tre volte: un po' troppe per credergli. Aggiunge: «Aspetto, aspetto. Sono trentasette giorni dall'ultima volta che ho visto Di Pietro. Cinque minuti. Io, come potete immaginare, non mi muovo». E' stato arrestato il 12 maggio, per una questione della Cogefar. Ma tutti sanno che c'entra l'In di cui è presidente. Non parla di questioni giudiziarie, si rifiuta, abbassa la voce anche per dire che no, dei giudici no. «Capite vero?». Ma certo, che capiamo. Nobili è un uomo completamente atterrito, in balia di un potere assoluto. Impossibile strappargli un pensiero sui giudici. Dice: «Vivo come un monaco. I miei figli mi hanno portato il libro di Rino Camilleri su Padre Pio. E' stato quindici anni in carcere per Santa Romana Chiesa. Ed allora io sopporto. Faccio la comunione tutti i giorni. I cappellani mi portano spesso i saluti del cardinal Martini, e questo mi conforta. Mi arrivano tante lettere. Addirittura ho saputo che dove ho la casa di campagna, a Manziana, hanno firmato una petizione: mi vogliono sindaco. Per carità di Dio!». «Nobili Franco!», grida una guardia. Porta un foglietto a righe. C'è scritto il numero di matricola: 13882. E' la Usta della spesa di dieci giorni. Riesco a leggere: pelati. E il conto: Lire 25.660. «Sono così gentili», dice trasognato. Come sono le sue notti? Nobili: «Tra un dormiveglia e una preghiera rifletto che cosa si possa fare. Da parte mia accetto questo mistero da cristiano, ma come cittadino (ha fatto la Resistenza, ho combattuto nove mesi) che ha lottato per uno Stato di diritto...». E si ferma. Nobili si blocca. Dica, presidente Nobili. E lui: «...aspetto che la giustizia faccia il suo corso». Tutto lì. Dentro deve urlargli un vulcano. Ma dice proprio così: «Che la giustizia faccia il suo corso». Poi ammette: «Sono preoccupato per il dolore della mia famiglia, questo mi dà pena. E poi temo un dramma sociale gigantesco. Ho letto oggi che Lodigiani ad esempio ha spostato la sua attività all'estero. Costruirà la metropolitana di Lille in Francia». Gli occhi brillano un attimo. Che non si pensi che vuole approfittare del dramma sociale per alleggerire le indagini. «Si indaghi», dice dolce. Il fervore interiore lo ha addirittura abbronzato. E Cagliari. «L'ho visto due giorni prima. Non si potrebbe parlare con i detenuti in parlatorio. Ho visto i suoi occhi. C'era un velo che non avevo visto prima, come una delusione immensa ma anche senza angoscia. Ecco, triste ma senza angoscia». E se ne va come un'anima del Purgatorio dantesco. Formigoni chiama la guardia. Posso parlare con Darida? Nobili ha 68 anni. Clelio Darida, un altro potentissimo che fu ministro, forse mille anni, ne ha 66 ma sembrano dieci di più. Magistrati niente. Niente di niente. Spiega: «Il fucile lo tengo dalla parte della baionetta. Come provo ad afferrarla mi taglia. E qui dopo ci muoio». Chi vuol capire capisca. Ma non ha parlato male dei giudici, siamo tutti pronti a giurarlo. Dice: «Formigoni è il primo democristiano che si fa vivo con me. Chi s'è visto s'è visto. Caspita che bel partito di amici. Io capisco tutto. Capisco che venerdì, essendo inquisito mi sospendano dall'ultimo incarico politico che avevo. Ma si fa così, a questo mondo?». Darida è forte, e trattiene le lacrime. Deve consolare Formigoni dagli occhi rossi che invece non è ancora stato ministro e dunque non sa frenare. «Sono 47 anni che ci sto nella De, ed ecco». Allarga le braccia Darida. Ha una maglia bianca da ragazzino di 12 anni, con un aereo per stemma e la sigla ST22. Sotto si vede la canottiera e una gobba di vecchio. Dice: «Siamo morti, una generazione di morti. E questa nuova generazione è senza pietà. Miglio è arteriosclerotico a dire quelle parole su Cagliari. Ma la società che gliele lascia dire con naturalezza vuol dire che non è buona. Sì, lo capisco che la gente è furibonda. A sentire che si pagavano tangenti sulle medicine, con i tickets da pagare e tutto. Miliardi di qui e di là. Ma uno Stato dove non dico la pietà ma il diritto...». E si ferma, ma poi riparte: «Negli Atti degli Apostoli si racconta che anche San Paolo si appellò a Cesare, ed ottenne gli arresti domiciliari. Altre civiltà. Formigoni, Formigonino, non sollevare casi personali: il mio o quello di Nobili o quello di Pollini. Poni la questione del diritto e basta, se vuoi il consiglio di un vecchio de in carcere, e salutami tutti». E se ne va, con i capelli bianchi, agitando la manina. Clic, ciac, la chiave urla il suo basta, la sua faccia si ritaglia dietro le sbarre. Allarga le braccia. Prova a sorridere. Ride invece Renato Pollini. «Sono contento di vedervi, amici. Salutami i compagni del Parlamento, specialmente Massimo D'Alema, onorevole. Sono qui per colpa di un infame e la verità si farà strada». Che morale trae questo vecchio comunista malato, con tumore e by-pass. «Lessenziale è rimanere integri, conservare la propria identità di uomo, non barattarla mai. E poi far diventare il carcere un posto da monaci». Ha l'accento toscano: «Cagliari è stato grande. Non dico la morte, ma la lettera». E si va al quinto raggio, nella cella di Cagliari. Vittorio ha fatto la doccia, è bagnato e fumante. Dice: «Diceva che era un colpo di stato dei giudici, perché non seguivano le regole costituzionali. Che tutti però avevano paura. Ma.poi verso la metà della settimana scorsa, dopo l'interrogatorio con il giudice mi ha detto: «Tocco ferro, ma domani sono fuori». Quando gli dissero che non era vero si mise a mangiare i biscotti con la camomilla. L'ho detto al giudice Colombo: «Qui state esagerando». Renato Farina E il compagno di cella racconta gli ultimi giorni dell'ex presidente Eni: «Ormai era sconfortato» «Negli occhi di Gabriele c'era un velo che non avevo mai visto» Da sinistra: Renato Pollini, ex tesoriere del pei e l'ex ministro Clelio Darida due degli «ospiti eccellenti» rinchiusi a S. Vittore per «Mani pulite» A sinistra il quinto raggio di San Vittore, dov'era rinchiuso l'ex presidente dell'Eni. Sopra Franco Nobili. A destra Cagliari