Un potente nato nell'apparato

Un polente nato nell'apparato Un polente nato nell'apparato E rimasto fedele fino infondo al suo ruolo ESECUTORE DEL SISTEMA LM UMANA pietà c'impone " di non tacere, ma al contrario di dire senza ipocrisie quello che crediamo sia il senso della tragica morte di Gabriele Cagliari nel quinto raggio del carcere di San Vittore, dopo 134 giorni di detenzione. Perché Cagliari era forse, fra tutti gli inquisiti e gli incarcerati dell'inchiesta Mani Pulite, il prodotto più autentico di un'epoca e di un sistema ormai disvelati quasi del tutto nel loro impianto, se non nelle singole storie, che i giudici - dover loro - continuano ad indagare caso per caso con determinazione professionale. Politica e Affari, Potere e Denaro, Apparati e Individualità, Fedeltà e Autoaffermazione: sono tutte categorie che segnano la vita e la morte di Gabriele Cagliari, ingegnere industriale di Guastalla, personaggio che sarebbe stato perfetto per il Pasolini di «Petrolio». L'uomo e il sistema. Cagliari ha sempre ruotato intorno al psi milanese, fin da prima della svolta craxiano-autonomista del Midas, che tante sciagure ha recato a questo Paese: il primo scandalo, dopo quella svolta, fu - non a caso - l'affare Eni Petromin, una tangente petrolifera da 120 miliardi che doveva servire, complici Signorile e Andreotti, a scalzare Craxi dalla segreteria appena assunta. Fece l'amministratore della federazione socialista di Milano l'ingegnere di Guastalla e organizzò il Club Turati. Sua moglie Bruna, donna rilevante, nel partito era più importante di lui, come consigliere comunale di Sesto San Giovanni e compagna di fede di un Craxi giovane e disponibile. La carriera dell'ingegnere per la verità non era esaltante, lavorò all'estero, fece il consulente della Liquichimica di Raffaele Ursini, uno di quei finanzieri siciliani che spesso spuntano in Italia come meteore e dei quali ci si chiede soprattutto, pleonasticamente, l'origine delle sostanze. Si occupò di un'azienda privata, l'Eurotecnica, di cui era azionista lui stesso insieme alla famiglia e - si è accertato adesso - a Silvano Larini, l'elemosiniere personale di Craxi. Tutto qui, o quasi, fino alla nomina nella giunta esecutiva dell'Eni, su segnalazione del giro di affaristi milanesi - Larini, Mach, Cusani, Pompeo Locatelli - che avevano scoperto la mecca finanziaria dell'ente petrolifero: speculazioni in cambi, «provvigioni» sui contratti petroliferi, sui contratti assicurativi, sugli eterni riassetti pubblico-privato, privato-pubblico della chimica nazionale... Quando nel 1983, all'epoca dei professori, arrivò come presidente Franco Reviglio, di cui Craxi non si fidava nemmeno un po' («Il Dellaveneria», lo chiamava ironizzando sul secondo cognome) Cagliari ne divenne un po' il cane da guardia. Reviglio fu licenziato nel 1989 con una criptica comunicazione del segretario amministrativo Vincenzo Balzamo: un fogliettino sul quale figuravano i nomi dei nuovi presidenti degli enti di gestione. Il suo non c'era. E Cagliari, il 2 novembre di quell'anno, scalò il ventesimo piano del grattacielo romano, sull'onda lunga di Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio, Silvano Larini, Ferdinando Mach di Palmenstein e tutta quella banda che amministrava senza distinzione le fortune monetarie del capo e quelle del partito. Morale politica. Più di ogni altra cosa gli Anni Ottanta hanno fatto irrompere in questo Paese un'etica diversa da quella tradizionale. Complici le lotte di potere nel psi e nella de, l'imperativo categorico era diventato: difendere il «giu¬ sto» e il «santo» delle linee politiche con tutto il denaro che occorreva. E il denaro che occorreva era praticamente infinito. C'è un aspetto che emerge prepotente dall'inchiesta Mani Pulite: alcuni leader politici, Craxi per primo, si comportavano, nel reperire le risorse, come dittatori sudamericani. Cosa temevano i dittatori sudamericani? Controgolpe che li costringessero a farsi da parte. In questa logica, cosa mai poteva essere condannabile nella vita aziendale se le risorse servivano a controllare il partito per il bene del Paese? Parliamo di un morto e la cosa ci pesa ma ricordiamo perfettamente che, quando prima dell'arresto parlammo su questo giornale delle attività private dell'ingegner Ca- gliari con la società Eurotecnica, struttura privata che lavorava intensamente per la società pubblica da lui stesso presieduta, fummo raggiunti dalle sue rimostranze. Non capiva alcuni toni troppo indignati. Come poteva capirli? Se tutto lo Stato era a disposizione del Caf, il gruppo Craxi, Andreotti, Forlani, allora dominante, che cosa c'era mai di scandaloso che una società sua, di Larini e chissà di chi altri prendesse commesse, magari ben eseguite, dall'Eni? Rubavano i ladri, rubavano le guardie, la finanza di clan negli Anni Ottanta era tutto ciò che contava, oltre a un imperativo personale: arricchitevi! Pensate ad un altro prodotto tipico di quest'Italia, il ministro dei Lavori Pubblici, Prandini. Abbiamo assistito per anni all'arricchimento suo e della sua corrente, appalto per appalto, con un'arroganza ed una supponenza quasi grottesche. E che dice oggi quel signore dinnanzi alle prove? Che è puro come un giglio. La concezione del boiardo. Se c'era una cosa per cui Cagliari s'irritava era d'essere definito dai giornali «boiardo». Oggi lui è morto tragicamente in quel quinto braccio di San Vittore, ma bisogna pur dire che nessuno più di lui risponde all'accezione del termine d'origine russa. Con una differenza, il bojàro delle Steppe talvolta si ribellava al suo stesso sovrano, l'ingegnere di Guastalla invece l'ha onorato, nonostante tutto, fino alla morte. Perché lui era un potente nato nell'apparato, vissuto nell'apparato, reso potente egli stesso dall'apparato. Un uomo che è stato padrone di se stesso soltanto quando ha deciso di togliersi la vita. Che sincerità tragica troviamo nelle ultime parole pubbliche dette a Tiziana Maiolo nella sua cella di San Vittore: «Qui c'è la sovversione dei codici scritti e arbitrariamente riscritti dalla magistratura. Ha visto? Neppure il Presidente della Repubblica può azzardarsi a dire qualcosa, che questi qua si organizzano. E se lo possono permettere perché hanno dalla loro l'opinione pubblica, che ha questo desiderio di vendetta, più che di giustizia. E se qualcuno si azzarda a proporre una mini-riforma, i magistrati minacciano di non poter più lavorare». Parole che fanno rabbrividire rilette oggi, anche se pronunciate dal personaggio che forse meglio rappresentava il codice della degenerazione della partitocrazia in questo Paese. Morire perché? Non basta, non basta essere un prototipo vivente di una Repubblica corrotta per finire morti con un sacchetto di plastica in testa nel quinto braccio di San Vittore. La carcerazione è stata vissuta in modo diverso da uomini che per un decennio hanno avuto un potere debordante, il potere del denaro. Mario Alberto Zamorani ha deciso di scrivere uno strepitoso manuale di sopravvivenza in carcere. Pensate sia soltanto un divertimento o, piuttosto, un modo di sopravvivere? Ma c'è una differenza: Zamorani aveva ben presente di essere uno strumento importante, ma solo uno strumento del regime. L'ingegnere di Guastalla no. Lui, che con quella banda del buco di speculatori socialisti aveva attività miliardarie a Santo Domingo, pensava di essere lui stesso parte della Repubblica. Santo Domingo, le speculazioni, i capitali in nero. Tutto per conto della Repubblica. Non più tardi di 48 ore fa, la moglie di Cagliari ha detto per La Stampa a Sergio Luciano: «Mi dicono che vogliono sapere da lui segreti di segreti tanto segreti che neanche lui li sa». E aveva aggiunto: «So che ci sono stati personaggi importanti, centrali nel sistema (badate alla parola che ha usato, ndr), che hanno fatto tre giorni (di galera, ndr) in tutto e so che mio marito certamente non ha tutte le responsabilità che si sospettano». Si vedrà meglio dalle lettere che ha lasciato, come ha vissuto il suo inferno di San Vittore. Nelle parole della moglie c'è comunque tutto il ritratto dell'ingegnere in grigio, un esecutore del regime. Possibile che l'astuto giudice Di Pietro non l'abbia capito? C'è pure un'evidente differenza tra un uomo d'apparato, mai padrone di se stesso, ed un uomo che ambisce a controllare con ogni mezzo una nazione. Alberto Staterà Dalla svolta del Midas alla scoperta del potere finanziario nell'ente petrolifero Claudio Martelli, ex vice segretario psi ed ex ministro della Giustizia Da sinistra Silvano Larini, l'«elemosiniere personale» di Bettino Craxi (insieme nella foto). Gabriele Cagliari, ex presidente Eni, e Franco Nobili, ex responsabile dell'lri