UN MESSAGGIO PER TUTTI di Ezio Mauro
UN MESSAGGIO PER TUTTI UN MESSAGGIO PER TUTTI LA fine di un regime non è mai uno spettacolo. Ma il suicidio in carcere di Gabriele Cagliari per protesta contro i giudici, dopo 134 giorni a San Vittore, trasforma il dramma italiano di Tangentopoli nella tragedia di un Paese che non riesce a cambiare, dandosi regole, tempi, modi e garanzie per il passaggio dal vecchio al nuovo ordine. Cagliari, nelle lettere che ha lasciato per spiegare l'ultima decisione, non dice tutto questo. Il suo è un suicidio concepito come esemplare, preparato perché diventi emblematico, spiegato come simbolico. Un «gesto», dunque, che nell'evidenza fortissima del suo significato diventa un atto politico, quindi di parte: la parte degli imputati di Tangentopoli, degli inquisiti, dei carcerati per corruzione. Il mondo ristretto dei potenti-onnipotenti, tra cui l'ex presidente dell'Eni, cacciati da quel paradiso terrestre delle tangenti che era l'Italia dell'ultimo decennio; ma anche l'universo grande degli altri, intermediari, sottoposti, portaborse e segretari, radunati insieme ai loro protettori dagli avvisi di garanzia. Di tutti, Cagliari assume la rappresentanza più estrema e terribile: il sacrificio di sé, non come assunzione di colpa ma come ultima, definitiva denuncia. Proprio perché è drammaticamente esemplare, puro gesto, il suicidio di Cagliari salta le accuse, ignora le contestazioni giudiziarie, non risponde alle lacune dei verbali. Conta solo il messaggio finale. E quel messaggio è un atto nudo di ribellione e un atto d'accusa verso i giudici, la macchina giudiziaria di Mani Pulite, l'uso della carcerazione preventiva: più ancora, e soprattutto - non c'è nemmeno bisogno di leggere le lettere per capirlo - vuole essere una denuncia del rapporto che nel contesto italiano di oggi si è stabilito tra l'imputato di tangenti e il suo giudice, tra il ruo¬ lo dell'uno e la condizione dell'altro, tra il concetto di autorità e il principio di garanzia. Tra il dominio e la soggezione. Questo è il messaggio spaventoso che Cagliari ci ha voluto mandare. E' terribile che in un Paese civile si scelga (ci si senta costretti a scegliere) di «parlare» così, attraverso questi gesti. Il suicidio di un uomo dal fondo di un carcere - con gli strumenti e lo scenario di un cittadino inerme - è sempre un atto d'accusa drammatico. Lo è molto di più quando non nasce dalla disperazione ma dalla razionalità, quando è deciso dopo 134 lunghissimi giorni non come fuga ma come risposta: ciò che ha fatto Gabriele Cagliari. Ma questa chiave di lettura che è quella che Cagliari ha fatto del suo stesso gesto - non basta, perché è parziale. Bisogna aggiungere tutto il non detto, guardare al contesto generale dell'inchiesta. Niente cambia nel dramma e nella pietà (a parte il cinismo dannunziano del professor Miglio, ^che li nega entrambi). Ma il significato generale, quello sì, cambia per forza. Non si può ignorare che dietro il braccio di ferro dei 134 giorni c'è il mistero dell'Enimont, l'incrocio attraverso il quale la chimica si fa politica, lo scambio gigantesco coi partiti: e su tutto questo Cagliari sa molte cose ma ha teorizzato il suo diritto-dovere di tacere. Bisogna anche pensare che il suicidio, programmato da tempo a quanto risulta dalle lettere, è arrivato tra la confessione di Ligresti e la confessione di Garofano, quando gli spazi per una resistenza passiva si stavano oggettivamente restringendo. E infine bisogna considerare e tenere bene a mente che dopo un anno e mezzo d'inchiesta l'interesse generale del Paese è che chi sa parli e faccia chiarezza, consentendo alle indagini di non trascinarsi ma di compier- Ezio Mauro CONTINUA A PAG. 2 SETTIMA COLONNA
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