DORAZIO Sangue a San Lorenzo

DQRAZD QUEL GIORNO. Il pittore ricorda il terribile bombardamento su Roma di cinquant'anni fa DQRAZD Sangue a San Lorenzo g TODI A Roma avete il parafulmi/■ ne», aveva appena assicuri | rato Padre Pio alla signo*■ " i ra Dorazio che come ogni anno era andata in pellegrinaggio col figlio Piero a Santo Stefano Rotondo. E, nonostante lo sbarco degli alleati in Sicilia, la presenza del Papa per i romani era una garanzia. Dunque, come sempre, finita la scuola, Piero Dorazio e i suoi amici seguitarono a darsi appuntamento sulle sponde del Tevere per un bagno all'Acquacetosa, dove la sabbia è fina e l'acqua limpida, o un tuffo dal barcone del Ciriola attraccato sotto a Castel Sant'Angelo. «Anche quel 19 luglio, con Angelo Bandinelli e le sorelle Volterra, due ragazzine molto carine che corteggiavamo, ci avviammo verso il Lungotevere - racconta oggi Dorazio. Improvvisamente, saranno state le undici e mezzo, a Ponte Flaminio si sente un rombo spaventoso, alziamo gli occhi e vediamo un'ombra, una nuvola, anzi tante nuvole nere. Erano squadriglie di dodici bombardieri. Poi, boati terribili. La gente correva urlando «Bombardano Roma!». E' la sorpresa e il primo vero impatto con il mondo. Il racconto dell'estate di Piero Dorazio potrebbe cominciare come il celebre incipit di Aden Arabia: «Avevo sedici anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita... E' duro imparare la propria parte nel mondo». Analoga iniziazione alla vita, salvo il leggero slittamento di anni. Con la differenza che, mentre nel romanzo di Nizan c'è un viaggio in paesi esotici, nella sua avventura lo sfondo è l'Italia sbandata del 1943: i bombardamenti, il pane e cicoria, l'affannosa ricerca nei campi di quei fili rossi e blu che, secondo le istruzioni di Ruggero Orlando da Radio Londra, bisognava tagliare per sabotare i tedeschi. «Con altra gente siamo corsi a rifugiarci sotto il ponte - prosegue Dorazio -. Passavano a ondate, e quell'inferno che vedevamo per la prima volta è durato più o meno un'ora e mezzo. Poi siamo risaliti e ho sentito gridare: "Bombardano San Lorenzo!". Come, San Lorenzo? Ma io ci abito vicino! Allora, via di corsa. Riattraversammo Villa Borghese con quelle due ragazzine che faticavano a starci dietro. Fortunatamente in viale Regina Margherita non era successo niente, ma in lontananza si vedevano le fiamme e un fumo spaventoso. Tutta la gente del quartiere stava per la strada. Noi trovammo altri amici, qualcuno andammo a cercarlo: allora il telefono pochi ce l'avevano e ci si chiamava fischiando dalla strada. «Decidemmo di andare a vedere perché a San Lorenzo ci abitavano i fratelli Battenti, due amici che erano degli atleti meravigliosi. Già a piazza Morgagni il calore, l'odore erano insopportabili e all'altezza del Policlinico trovammo un tram squarciato con tutti i passeggeri massacrati. Con l'incoscienza dei sedici anni siamo andati avanti, mentre da lontano vedevamo l'ultima ondata e distinguevamo le bombe legate da catene sotto la pancia degli aerei. All'Università abbiamo visto alcuni istituti sventrati e andando avanti, uno di quei carri della Birra Peroni sprofondato con tutti e quattro i cavalli nell'asfalto. Ma di quei cavalli col pelo lungo, rossicci, ce n'erano tanti, sfracellati. Elsa Morante ne descrive uno, nella Storia. Ma io ne rivedo proprio tanti. D'altronde era l'ora in cui, per esempio nelle osterie, consegnavano i lastroni di ghiaccio». «Insomma trovammo macello - ricorda Dorazio -, la gente urlava e non sapevi dove mettere le mani. L'effetto sorpresa aveva impedito qualsiasi possibilità di soccorso efficace. Di gente per aiutare ne stava arrivando tanta: i romani in questo sono straordinari. Ma era penoso non riuscire a capire da dove cominciare. Bisognava per prima cosa separare i morti dai vivi, e con quei corpi straziati non era facile». Dorazio fa una pausa, si versa un dito di vodka. «Improvvisamente, a metà del pomeriggio, si sente gridare "Arriva il Papa!". Su una Mercedes limousine scoperta, magro, con la tonaca bianca svolazzante, Pio XII sembrava un'apparizione. San Lorenzo era un quartiere operaio, rosso per tradizione, ci abitava anche Gramsci, e vedere il Papa che dalla macchina lanciava biglietti da mille, mentre dalle macerie spuntavano corpi martoriati, provocò una manifestazione di rabbia. "Ci hai tradito, vattene via", gli urlava la gente buttando nella macchina pezzi di macerie e brandelli insanguinati. "Ci hai venduto! Dicevi che Roma non l'avrebbero toccata!". La gente era inferocita. Molti avevano i figli o le madri sotto le macerie, avevano perso tutto. Si affollavano intorno alla macchina come se volessero spingerla lontano e infatti lo portarono via subito». Dorazio, ma che dice? Si è sempre saputo il contrario. Il Papa arrivò su una piccola Fiat e fu accolto con calore. «Che vuole che scrivessero, i giornali di regime? Il Giornale d'Italia scrisse che il Papa appena saputa la notizia, così com'era, con la tonaca da casa, era corso a San Lorenzo. Invece arrivò dopo qualche ora, col suo spolverino. E' andata proprio come le ho raccontato. E se aveva l'abito insanguinato, come riferirono i giornali, è per i motivi che le ho detto». Dall'inferno di Roma al paradiso di Todi. Dorazio ci vive da vent'anni, in una ex Canonica protetta da ima muraglia di querceti, che ha restaurata. «Eppure, ho una grande nostalgia di Roma. Per me non s'è trattato di fuga ma di necessità. Non c'erano più studi per i pittori e quei pochi li trasformavano in scannatoi di lusso». Lavora nell'ampia cappella sconsacrata e lungo le pareti si affollano grandi tele con le sue inconfondibili griglie colorate esposte nei musei di tutto il mondo. Negli anni si sono infittite, allungate o smagliate fino a esplodere, anche, e sfrangiarsi in filamenti volteggianti. A dipingere, Dorazio ha cominciato prestissimo e a proseguire lo convinsero Magnelli e Le Corbusier quando, studente d'architettura, per mantenersi a Parigi lavorò nel suo studio. Ha poi animato Forma 1, il gruppo che teorizzava un astrattismo cui è rimasto fedele, la libreria-galleria romana LAge d'or, e Arti Visive; ha insegnato alla University of Pennsylvania, ha viaggiato e esposto in tutto il mondo; ha pubblicato dei saggi, collaborato al Mondo e da una decina di anni al Corriere della Sera. Oggi, a sessantasei anni, in sandali, bermuda coloniali e camicia di lino bianca, con quel viso da etrusco che s'increspa in un sorriso accattivante, il corpo asciutto e la stessa stempiatura che aveva a trent'anni («i capelli li ho persi a Parigi, perché non mangiavo») non è troppo cam¬ biato da quando negli Anni 60 la sera passava da Buccone a via Ripetta, per l'aperitivo. Altri tempi. «Roma è diventata invivibile. Ma se al Borghetto Flaminio facessero degli studi per gli artisti e gli scrittori, se ricreassero quella che un tempo era via Margutta, tornerei di corsa e ci tornerebbero tanti artisti di tutto il mondo». Ai tempi del liceo Giulio Cesare, il più moderno della capitale, Roma «era piena di pittori dilettanti - ricorda Dorazio - e il fascismo incoraggiava le arti e la cultura, purché servissero il regime. Forse, avevamo cominciato per emulazione, poi era diventata ima passione che ci salvava dal lavaggio del cervello cui eravamo sottoposti. E ci univa ad altri, a Emilio Pampiglione o ai fratelli Rendi, che nel '55 insieme a Carandini hanno poi fondato il Partito Radicale. Cominciavamo ad avere dei dubbi, discutevamo. Così, un po' per gioco un po' per convinzione, organizzammo delle azioni come strofinare le scale di sapone quando a scuola venne in visita il Ministro della Cultura Romena. I fascisti salivano sempre di corsa, e che scivoloni! Fu una baraonda. Intanto si sviluppò un affiatamento tra gruppetti antifascisti di indirizzo liberale. Non c'erano leader o figure di riferimento. Uno che ci ha insegnato molte cose è stato Angelo Maria Ripellino, più grande di qualche anno, che leggeva moltissimo e aveva una grande conoscenza nel campo dell'arte». Qualche giorno dopo il Bombardamento di Roma, arrestano l'amico Ginepri con addosso la lista degli studenti antifascisti del «Giulio Cesare» che stampavano Risorgimento liberale. E' il panico, fino alla sera del 25 luglio. «Eravamo pazzi di gioia - continua Dorazio con un lampo negli occhi. - In piazza Dalmazia, c'era un viavai. Poi, qualcuno disse che sotto la Caserma della Milizia, a viale Romania, s'era radunata la gente per stanare i fascisti. Trovammo un assedio che sarebbe continuato per qualche giorno e, a turno, mantenendo i contatti con i gruppetti rimasti a Piazza Dalmazia, passammo la notte urlando insieme a una folla inferocita "Venite fuori!". All'alba, assaltammo il Circolo giovanile fascista di piazza Verbano, un grande anfiteatro con sala da boxe, palestra, biliardo. Saremo stati un centinaio, tutti tra i sedici e i diciotto. Volevamo sentirci utili. Forzammo le porte e buttammo giù dal piedistallo l'enorme testone di bronzo del Duce che abbiamo trascinato fino a piazza Colonna tra gli applausi della gente. Là, sotto il Parlamento, c'è stata una festa. Era una catarsi, e per noi una rivelazione della verità. I fascisti erano improvvisamente spariti». «La guerra continua» ha però annunciato Badoglio. E continuano gli arresti. Meglio raggiungere la madre a Giulianova. E' finalmente la vacanza: bagni di mare, passeggiate in bicicletta, qualche ballo al ritmo di Blue moon e di Starlight Paradise. «Ma a fine agosto, mentre stiamo cenando, arrivano due carabinieri che mi portano in caserma. Come mi siedo, il maresciallo mi sbatte sotto il naso tre lettere con la stampigliatura "Verifica per censura". Il mittente era "Fesso chi legge". "Chi è?", mi chiede. Ho riconosciuto subito la calligrafia del mio amico Cesare Canessa, oggi noto antiquario. Ma ho fatto il finto tonto. Lui insiste, comincia a leggere qualche frase. «Cesare, che era di madre svizzero-tedesca, attraverso la Croce Rossa internazionale aveva saputo che nelle fosse di Katyn, in Polonia, erano stati sepolti ventimila ufficiali polacchi massacrati non dai russi ma dai tedeschi. Quindi mi scriveva di stare attento. In un'altra, mi raccontava di una seduta spiritica con Pioli, un imbalsamatore che lavorava al museo di zoologia e che evocava sempre gli spiriti dell'antico Egitto o il fantasma di Napoleone. Allora il maresciallo urlava: "Chi è Amenofi? Questo 'III' che vuol dire? Parla!". Poi si rivolgeva all'appuntato e gli faceva: "Amenotep Tv" chi può essere?". «Nella terza lettera, Cesare aveva disegnato una cartina con i punti dove prevedeva che sbarcassero gli alleati. E lui: " A quale rete di spionaggio appartenete?". Più io dicevo che non ne sapevo niente più lui mi dava schiaffoni. La notte andò avanti così, lui a urlarmi "Parla!" e io a dirgli "Marescià, siate buono, mandatemi a casa". Finché mi mise in cella e, quando il giorno dopo ricominciò l'interrogatorio, per depistarlo gli diedi un altro nome. Mi rilasciarono. Il 6 settembre però, appurato che quello non c'entrava niente, mi hanno fermato di nuovo. Altro interrogatorio, ma, due giorni dopo, la porta della cella si apre e vedo il maresciallo in borghese che mi dice: "Alzati e vattene a casa, la guerra è finita". Non mi sembrava vero. "E adesso che fa? - gli chiedo. - Vado a Teramo dove c'è un gruppo di resistenza guidato dal colonnello Taraschi", fa lui. E sa che successe? Qualche giorno dopo, sempre per sentirmi utile, andai a raggiungerlo a Teramo! «Tante volte, nelle notti lunghissime di quell'estate mi ero interrogato su come giudicare quel bombardamento degli Alleati. Non riuscivo a dimenticare quello che avevo visto. Non riuscivo a dimenticare la gente di San Lorenzo che aveva cacciato il Papa. Era il coraggio della disperazione. Per me era stato duro, ma avevo imparato che, reagendo alla paura, si può essere liberi e vincere. Il fascismo si era retto su una grande paura». Paola Decina Lombardi «Dalle macerie spuntavano corpi martoriati, la gente urlava alPapa: "Ci hai tradito, vattene via"» S Piero Dorazio nel suo studio di Todi: un'ampia cappella sconsacrata lungo le cui pareti si affollano grandi tele con le sue inconfondibili griglie colorate Piero Dorazio adolescente durante la guerra. Sotto, i soccorsi alla popolazione dopo il bombardamento Pio XII tra la folla subito dopo il bombardamento sul quartiere di San Lorenzo. Dorazio ricorda che la folla gridava contro il Papa, gettava pezzi di macerie contro la Mercedes nera del Pontefice