Respighi: c'è aria di casa di Giorgio Pestelli

Respighi: c'è aria di casa Respighi: c'è aria di casa Alla scoperta di talenti d'ogni nazione SPOLETO. Nella rassegna musicale del Festival dei Due Mondi, la cui 36a edizione si è appena conclusa con il «Requiem» di Berlioz nella piazza del Duomo, quello che permane immutato è il clima di attesa assieme a una suggestione di scoperta per le giovani forze impegnate; certo, dietro c'è l'intelligenza e il gusto di Menotti che sa dove cercare; ma l'ambiente ha la sua parte, e tanti illustri ricordi sembrano orientare molti esordienti, rendendoli intanto partecipi di uno slancio di cooperazione: questo tono era dominante nella più bella riuscita della rassegna, «The Rake's Progress» di Stravinski al Caio Melisso, dove uno stuolo di giovani cantanti sono entrati con perfetto aplomb nella regìa di Roman Terleckyj e nelle lodatissime scene di David Hughes. Ma l'aria di scoperta si respira sopra tutto ai tradizionali concerti di mezzogiorno, curati per la maggior parte da Scott Nickrenz: di giovani, di ogni angolo del mondo, nei venti giorni di fe¬ stival ne mettono fuori un bel numero. Se gli incontri emozionanti sono rari, c'è però sempre qualcosa da imparare, per impostazioni esecutive e scelta di programmi; è un bel caso, ad esempio, che un giovane basso giapponese, Christopheren Nomura, di bella voce e fini qualità espressive, scelga di farsi conoscere attraverso «Il tramonto» di un giovane Respighi, un poemetto lirico di Shelley tradotto in italiano con eloquio dannunziano; un caso che si salda con una recente incisione di Janet Baker proprio dedicata allo stesso brano e alla coeva «Aretusa», a suggerire un'attenzione al primo novecento italiano ancora assente in casa nostra. «Il tramonto» mostra un Respighi immerso in Wagner e Strauss, che era uno degli esiti musicali suggeriti dall'influenza di D'Annunzio; il canto si comporta come un costante declamato, dedotto dalle curve dell'armonia avvolgente: il Nomura, adeguando emissione, accento e pronuncia, mostrava una costante comprensione del testo, integrandosi nel flusso sinfonico, qui condensato in una versione per quartetto d'archi a cura del Quartetto Borromeo (esiste anche per orchestra, ma la versione cameristica è preferibile per la trasparenza del tessuto). Il Quartetto Borromeo, composto da un italiano e tre americani, ha poi suonato il Quartetto di Giuseppe Verdi, pezzo che non sembrerebbe più suscettibile di sorprese o novità. Eppure si è subito sentito che quei giovani suonavano senza inibizioni, sopra tutto senza quel complesso dell'opera lirica troppo sentito in Italia: i quattro del Borromeo non hanno timore di attraversare situazioni teatrali, cantabilità scoperte, staccati in punta d'arco tanto simili agli staccati del «Falstaff»; ma tutto inconsapevolmente, suonandolo come un classico e rappresentandolo come cosa nuova agli ascoltatori non prevenuti. Giorgio Pestelli

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