La maledizione della Montedison Trent'anni di affari e malaffari

La maledizione della Montedison Trent'anni di affari e malaffari La maledizione della Montedison Trent'anni di affari e malaffari DA CEFIS AL «CARDINALE» ROMA ON poteva esserci evento più degno della «cantata» di Pippo Garofano dinanzi agli eroi di «Mani pulite» per celebrare il terzo decennio della grande malversazione nazionale della chimica. Sì, perché tutto cominciò trent'anni fa, con l'Italia «a sinistra», con la nazionalizzazione dell'energia elettrica, con il «taglio di unghie» - così si diceva allora - alle imbelli e rapinose famiglie degli elettrici. Che ingenua, generosa utopia fu quella coltivata da Riccardo Lombardi, che immaginava un'Italia più sana e civile con l'elettricità statale, con la nazionalizzazione dei grandi e inefficienti monopoli privati sulla via maestra di una Repubblica più giusta, sociale, programmatoria e keynesiana. Il risultato visibile è sì un servizio elettrico degno di un Paese civilizzato, ma, sull'altro versante, si stagliano cupi i trent'anni di malaffare chimico che Pippo Garofano, ultimo e forse non tra i più turpi epigoni di Eugenio Cefis, sta narrando almeno per gli ultimi due lustri ai giudici milanesi. Pippo è diverso dal suo capostipite. Eugenio Cefis aveva un progetto di conquista della Repubblica. Vecchio partigiano bianco della scuola di Enrico Mattei, vagheggiava uno Stato efficiente, ma dominato dalle élites e, in particolare, dall'éZite ristrettissima di cui si considerava campione e condottiero. Trescava con i politici fin dal congresso della de di Napoli del 1954, da lui personalmente acquistato in contanti, con i denari messi a disposizione da Mattei, ma quando negli Anni Settanta arrivò al ponte di comando della Montedison, scalata con i denari pubblici dell'Eni, il suo consigliere principe fu Gianfranco Miglio. Sì, proprio il professor Miglio, quello della Lega, che gli riempiva la testa con l'indegnità di una classe politica che, in forma di piovra, mortificava tutte le individualità. Un percorso paradossale: il primo, grande esponente della cosiddetta Borghesia di Stato, nato con la politica e con la politica cresciuto, si convinse à un certo punto di aver forse lui stesso partecipato a costruire un giogo invincibile. E scomparve in Canada, ricco a decine e decine di miliardi, lasciandosi alle spalle Amintore Fanfani, suo deus ex machina per un decennio, una banda di fascisti (Nencioni, Pisano e soci), una specie di servizio segreto di Sua Maestà, costituito da una coorte di ex alti ufficiali dei carabinieri, dal colonnello Varisco, ucciso poi dalle Brigate rosse a Roma sul lungotevere, a Massimiliano Gritti, ex spione trasformatosi in grande manager delle peggiori operazioni sull'estero, fino al folcloristico Tom Ponzi, agente privato che per conto del boss controllava i telefoni di tutta Italia. Pippo Garofano è diverso da Cefis. Il massimo di élite che concepisce è quella cattolica dell'Opus Dei, organizzazione di monsignor Escrivà de Balaguer che fortifica i suoi adepti per stimolarne l'eccellenza nelle loro professioni. Ma i politici non erano la specialità di Pippo. Per contattarli non poteva fare a meno dell'amico immobiliarista amatriciano di suo padre Luciano, o di Matilde Bernabei, figlia di Ettore e in rapporti amicali con Claudio Martelli. Pensate che a Pippo, così cattolico e legato alla famiglia, il papà Luciano, è morto in aprile, a Pasqua, quando lui era già latitante. Tornare per assistere al funerale, o proseguire la latitanza per proteggere, oltre a se stesso, quella manica di cialtroni di Ravenna? Preferì piangere da solo a Londra la morte di suo padre per accontentare, ed era già l'ennesima volta, Raul, il Cacciatore in Botte, Carlo, il Bagnino, e tutta quella fauna ravennate che, allibito, aveva visto sbarcare in Fo- ro Buonaparte. Anche i politici? Può darsi, ma Pippo - per quel che ne sappiamo - è più uomo d'azienda, almeno secondo i canoni tutti puramente politici che da un trentennio dominano la chimica italiana, Un'industria che ha prodotto più correnti politiche, scissioni, deputati, senatori, nuovi partiti, che poliuretano o propilene. E' proprio qui, forse, la chiave dei tre decenni di malaffare di cui Pippo - si spera - nell'interrogatorio di Di Pietro e soci racconterà l'epilogo. In principio fu Cefis. Chissà se Di Pietro, Ghitti, Colombo, e lo stesso Borrelli, sanno che tutti i dibattiti odierni sono già vissuti, con la differenza che allora i processi si «aggiustavano» e questa volta invece - almeno si spera arriveranno in aula. Fu nel 1970 che Eugenio Cefis, con una buona dotazione di miliardi, sponsorizzò un'amnistia per tutti i reati al di sotto dei cinque anni di carcere. Per lui non era una novità. Alla fine degli Anni Sessanta, un incauto magistrato, il cui nome non è neanche passato alla storia, gli intentò un processo per reati assai simili a quelli che oggi costituiscono il pane quotidiano di Di Pietro. Cefis ne uscì alla grande, facendosi ricevere in udienza ufficiale in Vaticano e facendosi additare dal Papa, Paolo VI, come esempio preclaro di imprenditorialità orientata ai valori cristiani. Quale Di Pietro avrebbe più osato, a quei tempi, inquisire un manager così pio? Se volete uno schemino dei trent'anni di malaffare chimico, culminati nel Garofano incarcerato, il Bignami non è difficile: il decennio Anni Sessanta, con l'Italia a sinistra di Fanfani - figuriamoci - che nella chimica trovò il sostentamento di tutte le sue operazioni politiche, comprese le scissioni dei socialisti lautamente finanziate. Il decennio d'oro degli Anni Settanta, quando un signor Briatico e un suo socio, tale Gioacchino Albanese, erano i padroni d'Italia per designazione cefisiana. E i mitici Anni Ottanta, prateria degli Schimberni, poi sostituiti da quei super imprenditori bizantini di Ravenna, che un concetto almeno avevano ben assimilato: porta via quel che puoi. Ricordate Cesare Merzagora? Presidente del Senato democristiano, ma in realtà vecchio liberal, ricco, che passava le estati a bordo del suo yacht, con il leader jugoslavo Tito. Merzagora fu per un breve periodo presidente della Montedison e, a quel tempo lo incontravamo nella sua suite all'Hotel Danieli di Venezia. Fu allora che ci svelò privatamente: «Guardi che in Italia c'è una scarsa moralità e molte operazioni finanziarie servono soltanto a spremere denari. Mi chiede quali? Beh, per esempio c'è un gruppo di speculatori che agisce di concerto con i partiti, elargendo tangenti, in tutti gli ambienti della finanza, compresa la Montedison, che, anzi, è capofila di certe operazioni. Secondo me, è un vero cancro della comunità finanziaria». Vecchio liberal Merzagora, perfino nelle parole. Conosceva tutto delle operazioni illegali della Montedison fin dalla sua nascita, ma concedeva sempre il beneficio del dubbio, pur avendo visto i libri contabili. Era ancora la seconda fase del trentennio del malaffare chimico. Al principio fu Cefis, con la scalata, con le guerre chimiche che vedevano lui stesso, allora manager fanfaniano, opposto alle forze della distruzione, rappresentate da Rovelli e dai suoi sponsor politici, Andreotti, Mancini, potentissimo segretario socialista, il nuovo presidente della Repubblica Giovanni Leone, eletto con i voti che Cefis aveva comprato, in miliardi sonanti, per Fanfani e che, alla fine, aveva ceduto per non sprecarli al Paglietta napoletano. Il terzo decennio di malversazioni chimiche avrà l'imprinting del privato, quello della bella famiglia ravennate, erede di Serafino Ferruzzi, re delle granaglie e della borsa merci di Chicago. Schimberni aveva bluffato, si dichiarava quasi schiavo della politica che finanziava senza avarizia, e invece aveva un sogno impossibile che si chiamava «public company». Gardini non bluffava, era proprio l'uomo della botte per le beccacce e il folle cultore di vele al vento. «Fanfan-culo», titolò a fine Anni Settanta II Tempo settimanale, creatura cefisiana sfuggita al suo dominus Eugenio Cefis, alleato per l'occasione a Giulio Andreotti e a Giacomo Mancini, antichi nemici contro i quali era solito scatenare il coté fascista. Le alleanze saltavano. Cefis capì per primo che l'Italia supertrasformista non funzionava più e si apprestò alla cura dei suoi pingui interessi canadesi. Ma si aprì una nuova partita di malaffare, della quale oggi il buon Pippo Garofano - colpevole o innocente - è l'erede. Schimberni, la sfida a Cuccia, lo scippo della Fondiaria di Firenze, l'arrivo dei bizantini di Ravenna, così incapaci, quasi teneri, nel loro rampantismo provinciale. Quegli omini di Ravenna hanno preso il controllo del più importante strumento di corruzione dell'Italia repubblicana: la chimica. Poteva gestirlo produttivamente il Carletto Sama, o anche il suo boss Raul? «Si parla d'altro - dice un cinico commentatore - altro è la dolcezza dei lidi ravennati, altro il Potere». Alberto Staterà Quand'era presidente Merzagora confessò «Questo è un vero cancro della comunità finanziaria» A sinistra Carlo Sama con Giuseppe Garofano Sotto Raul Gardini e Arturo Ferruzzi Eugenio Cefis il «capostipite» arrivò negli Anni Settanta alla guida della Montedison