Poeta e contadino nel kibbutz di Fiamma Nirenstein

Con versi e sculture si salva la comunità Le sorprese di Ein Shemer dove è nata la serra-capolavoro della Biennale Poeta e contadino nel kibbutz Con versi e sculture si salva la comunità l' TEL AVIV ARTE salverà il kibbatz? L'arte della serra grandiosa che suscita sospiri utopici alla Biennale di Venezia, l'arte del fabbro geniale Uri Hofi che batte riccioli bruniti a 200 metri dalla serra originale, situata nel kibbutz Ein Shemer, l'arte del poeta EU Allon, che nella sala comune dei pasti legge le sue composizioni, quella della pittrice Zila, dello scultore Maurizio, del designer Hananel, salveranno quello che il socialismo non ha saputo salvare, quella scheggia di utopia che è il kibbntz di Ein Shemer nel Nord d'Israele? Sì è vero, il kibbutz è in crisi, ma quello che ha generato la serra della Biennale culla una domanda difficile: sarà la libertà dell'artista nel contesto di una microsocietà comunitaria a restituire il senso a un'idea in bilico, a ridare il significato della vita socialista a tutti quei ragazzi che, negli ultimi anni, l'hanno abbandonata? «Ein Shemer è un kibbutz speciale, un kibbutz pieno di artisti e che aiuta gli artisti»: brunito e potente come i suoi ferri battuti al fuoco vivo, circondato dai suoi allievi Uri Hofi sembra un vulcano di 60 anni. «Vivo qui dal 1957. Ho curato le nostre grandi coltivazioni di cotone; ho contribuito a fondare e dirigere le tre grandi fabbriche che mantengono il kibbutz, quella della plastica, della gomma, quella dei magneti. Sono un manager, un businessman di kibbutz. Soltanto dieci anni fa, una notte, mi sono alzato dal letto e ho cominciato a scolpire grandi pezzi di legno. Poi ho deciso di andare a scuola. Ho chiesto al kibbutz di lasciarmi seguire la mia improvvisa ispirazione, di poter smettere di essere un produttore, un agricoltore, un manager. All'assemblea in cui i membri decidevano, tutti, nessuno escluso, hanno alzato la mano in mio favo¬ re: il kibbutz mi ha concesso due anni di tempo per poter diventare produttivo come artista. Non c'è stata invidia, e neppure disapprovazione perché non mi vedevano più andare al lavoro con gli altri. Seguito ancora a fare le mie guardie di notte, le mie ore di cucina e di servizio. Ma la maggior parte del tempo la passo nella fucina. Sono diventato famoso in tutta Israele. Sono diventato anche uno dei migliori money-maker del kibbutz, con le vendite e anche con la scuola. I soldi dei miei lavori in ferro vanno, è ovvio, nelle casse comuni; altrimenti sarei ricco. Però, chi mi avrebbe mai dato, alla mia età, due anni di sorrisi, di solidarietà umana, di aria e di cibo buoni, chi mi avrebbe dato il tempo per divenire un artista?». ' Hofi ha un senso di fratellanza verso gli altri artisti suoi compagni di kibbutz. Non è geloso neppure dell'inventore della serra, Avita Geva, il figlio più viziato e più famoso fra i vari geni che abitano Ein Shemer; infatti è quello di cui più si mormora che abbia costruito, proprio nel mezzo del kibbutz (perché la serra della Biennale non è che una copia dell'originale che «come una sinagoga», dice lui, ne occupa il cuore), una fonte di spese continue e anche di straniamento per il piccolo popolo comunitario. Geva è quello che ha osato più di tutti, quello che ha rappresentato di più, all'esterno, l'ideologia socialista e spartana della sua nascita; tanto da arrivare a fare della serra la sua unica forma di espressione artistica. La serra è ((un'opera d'arte se vi pare» e se non vi pare, non fa niente; è un monumento alla vita nella natura, al lavoro comune, all'energia pulita, La sua idea primaria è quella di una fonte d'acqua in continuo incantevole riciclaggio da cui si alimenta senza sosta la vita di pesci e di piante. Avital, uno degli scultori ambientali più riconosciuti d'Israele, è andato nel corso degli Anni 60 e 70 a deporre rifiuti organici e lingue di mucca in formalina davanti alle maggiori istituzioni artistiche in Israele, ha fatto sberleffi, dall'interno del ventre caldo del suo kibbutz, a tutto quanto il sistema social-artistico di Tel Aviv. Poi, ha ricompensato la sua cuccia per tutta la cura materna che aveva avuto nell'accettare le sue costose e scomode scelte non solo dandole fama internazionale, ma soprattutto rinfrescandone il vigore ideale. Di lui non si ricordano interviste. Ma per quanto schivo, e a volte spiacevole e prepotente, Avital col suo carisma ha fatto un dono enorme al kibbutz: la serra, nel '76, contro la voga imperante dell'industrializzazione del kibbutz. Avital, insieme con un gruppo di ragazzi che anche oggi si ravviva di continuo, impose di tornare a colti¬ vare la terra con le mani, dette un pezzo di terra a ogni famiglia, all'interno della sua invenzione, dove ciascuno coltivasse pomodori e cetrioli. La sua idea si sposa con quella del socialismo primitivo, con quella della produttività e soprattutto dell'autoeducazione: (Avital non ci comanda mai di fare niente»: Jael, una grassoccia allieva dell'artista, si stacca dal gruppo che nel calore umido dell'ambiente, pota, sarchia, sposta, pulisce, semina. «Noi viviamo qui notte e giorno, Avital ci parla, ci affascina con le sue idee, ma non ci chiede nulla. Al momento opportuno, il gruppo si riunisce e decide». H kibbutz di Ein Shemer conta oggi circa 500 persone. Molti vecchi felici vi si aggirano; tanti, che il kibbutz ha trovato il modo di far passare loro il tempo con piccoli lavori pensati apposta per loro. «Ma gli uomini e le donne realmente produttivi, ovvero sotto i 55 anni, oggi sono appena 200. Solo una quarantina fa il contadino, secondo l'ispirazione originaria, altri vanno in fabbrica; poi ci sono gli artisti e i ragazzi che li seguono» dice Ygal Israeli, un audace quarantasettenne che ha fondato una scuola di cinema e televisione detta Videocenter. «Gli artisti fanno gruppo con la gente come me, che lavora fuori del kibbutz, fa quello che si sente ispirata a fare, studia col supporto di Ein Shemer e poi, quando diventa (se diventa) produttiva, passa tutto il suo guadagno al kibbutz stesso. Per gli artisti, così, il kibbutz diviene una fonte di libertà. E per gli altri, quelli come me o come una ragazza il cui sogno era diventare chef, e che ha chiesto di studiare a Haifa per tre anni, è un modo per avere una qualità della vita bellissima, nel verde, con la lavanderia, la mensa, tutti i servizi in comune, la vecchiaia assicurata, l'infanzia salvaguardata... Perché la ragazza di cui parlavo non ha voluto fare lo chef nella sala da pranzo del kibbutz? Perché io non mi limito a girare filmetti per il piacere dei miei compagni? Perché la libertà è un bene a cui un tempo si rinunciava in nome di ideali che oggi non sono più credibili. Mia madre, quando io e i miei fratelli eravamo piccoli, condusse una terribile battaglia perché i suoi figli potessero dormire a casa invece che nel dormitorio comune dei bambini. La perse. Guai a pensare di portarsi a casa i propri figli. Quando per la prima volta una donna di qui decise di comprarsi un fornellino, fu uno scandalo in tutto il kibbutz. E oggi si pensa addirittura di abolire la sala da pranzo comune...». Quando Hofi e Avital erano giovani, l'unico lavoro artistico consentito nel kibbutz era quello dello scrittore. Perché? Perché prendere in mano un quadernetto e una penna, magari di notte, non suscita l'attenzione dei compagni di lavoro quanto scolpire o dipingere, o comunque occupare il proprio tempo, alla luce del sole, con attività che non siano immediatamente utili al bene comune: ((Era impensabile - racconta Hofi - pensare di essere mantenuti dal kibbutz per due o tre anni senza portare il sudore della nostra fronte sull'altare dell'agricoltura, della fabbrica. La struttura era rigidissima. Ci voleva un'assemblea addirittura per decidere di che colore dovevano essere le pareti della tua casa e il tuo pavimento; avere in casa una radio o una televisione oltre a essere un peccato contro la morale era un'autentica minaccia contro la vita stessa del kibbutz. Così ci pareva. Invece il kibbutz è sopravvissuto. Si può immaginare quante critiche debba aver subito la serra di Avital e anche la mia vita coi ferri battuti: tante e tuttora ne subiscono. Ma un cittadino che vive in un nonnaie mondo capitalistico resterebbe sorpreso nel vedere quanta comprensione, quanto orgoglio ci sia nei nostri compagni nel nutrirci, nel mantenerci finché non diveniamo indipendenti... Questo, per quante crisi possiamo attraversare, i ragazzini qui lo suggono col latte: il kibbutz è un corpo collettivo, ancora oggi, ancora dopo la crisi del socialismo. C'è chi produce patate, chi produce arte. Non credo che voi cittadini lo possiate capire. Loro sono nostri, e noi artisti, loro. Da piccoli siamo stati allevati con Borochov e Marx, domani, chissà! Il kibbutz comunque non è finito, si trasforma. Magari in qualcosa di meglio. Tutti i suoi becchini finora non hanno avuto ragione». Fiamma Nirenstein Le sfide egli sberleffi dei nuovi artisti israeliani. Con pittura e video ferro battuto e ortaggi alla conquista del mondo. Iguadagni alla cassa comune Due immagini della serra ricreata da Avital Geva per il padiglione di Israele alla Biennale di Venezia

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