Allarme lebbra a Roma di Raffaello Masci

Nella capitale, almeno venti casi tra gli extracomunitari Nella capitale, almeno venti casi tra gli extracomunitari Allarme lebbra a Roma La Cavitasi «Serve un lazzaretto» ROMA. Venti lebbrosi si aggirano per le strade di Roma, senza fissa dimora e senza una assistenza adeguata. La Caritas si sta facendo carico della loro sorte, ma non ha né mezzi né spazi adeguati per garantire una esistenza degna e una possibilità di cura. Roma dunque ha bisogno di un lebbrosario, ecco la richiesta che la Caritas fa, dopo che il fenomeno è stato denunciato dal presidente diocesano monsignor Luigi Di Liegro e, prima di lui addirittura dal cardinale Camillo Ruini, vicario pontificio della città. Per i venti lebbrosi accolti dalla Caritas non esiste la possibilità di ricorrere all'assistenza sanitaria pubblica perché si tratta di immigrati clandestini. Di Liegro allora ha chiesto all'amministrazione capitolina la possibilità di accoglierli in un «alloggio famiglia». Niente da fare, neppure su questo fronte. E ancora oggi, dunque, i lebbrosi continuano a muoversi liberamente per la città, spesso alloggiando in aree degfadate del centro urbano. «Anche se un emigrato non ha diritto di cittadinanza ha comunque il diritto di curarsi», tuona don Di Liegro, ma la sua è proprio l'evangelica «voce che grida nel deserto». L'amministrazione, dice ancora Di Liegro, non può trascu- rare le condizioni di salute degli immigrati, legali o illegali che siano: «La mancata attenzione rispetto alle condizioni igieniche in cui versano le comunità degli emigrati rischia di far degenerare la situazione e alimentare la xenofobia». I cittadini debbono comunque allarmarsi? «Assolutamente no - dice il prof. Salvatore Delia, ordinario di malattie infettive alla "Sapienza" di Roma -. La lebbra è molto poco contagiosa e con i casi segnalati da Di Liegro non andremo certo incontro ad una epidemia nel nostro Paese. E poi non è più quell'evento terribile descritto nei secoli scorsi: è cura¬ bile e per essere contagiati bisogna che ci sia un contatto assiduo con il malato». «Per restare infetti - precisa il prof. Giuseppe Visco, primario virologo dell'ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma - occorrerebbe una convivenza stretta di almeno cinque anni e fra consanguinei, quindi tra soggetti predisposti». «In Italia questa malattia è rara - dice il prof. Donato Maggi, ordinario di Statistica medica all'università cattolica -. I dati parlano di appena 13 casi di morte tra l'83 e l'88. Negli ultimi cinque anni la media delle denunce (per legge i medici devono denunciare ogni caso alla rispettiva Usi, ndr) si aggira intorno ai 4 casi l'anno». Eppure nei due lebbrosari italiani - uno in Liguria e uno in Calabria - vengono curati circa 500 infermi. «La lebbra dunque - continua Maggi - è ancora in gran parte una malattia clandestina e che viene rimossa dall'attenzione collettiva». «I casi denunciati dalla Caritas - rassicura il prof. Delia non ci devono stupire, perché la lebbra è endemica nella fascia equatoriale, in particolare nell'Africa, nell'Estremo Oriente, in India e in Sud America, e l'Italia ospita attualmente oltre un milione di persone provenienti proprio da queste aree». La malattia inoltre presenta una incubazione molto lenta ed è probabile che gli extracomunitari che attualmente ne sono affetti siano entrati nel nostro Paese quando ancora il morbo non era conclamato. Esistono due tipi diversi di lebbra - ha spiegato Delia -: il primo, che riduce gli arti quasi a moncherini, colpisce le ossa e i nervi oltre che gli organi interni; mentre il secondo si manifesta con chiazze sulla pelle e colpisce maggiormente i neri. Forse di quest'ultimo tipo è la lebbra che ha contagiato i 20 extracomunitari a Roma. Raffaello Masci

Persone citate: Camillo Ruini, Di Liegro, Donato Maggi, Giuseppe Visco, Luigi Di Liegro, Salvatore Delia