D'AZEGLIO ADDIO LUMBARD di Giovanni Tesio

D'AZEGLIO ADDIO LUMBARD D'AZEGLIO ADDIO LUMBARD Nelle Lettere il romanzo sospeso manzo annunciato, La Lega Lombarda, è cosa che si riduce a pochi capitoli e l'autore finisce per prenderne definitivo congedo. Ecco quanto scrive al cugino Cesare Balbo: «M'hai scritto di non abbandonare il romanzo della Lega Lombarda ma per far un romanzo bisogna pensarci tutto il giorno, e non aver il capo ad altro, ed io l'ho alle cose correnti». La «storia» che ammazza il romanzo e quasi del tutto anche l'attività di pittore, condotta a strappi, giusto per non perdere il mestiere e per intascare qualche scudo. Nemmeno di suonare e di cantare qui c'è più desiderio e tutti i pensieri vanno ormai alla politica e alle sue brighe. Posto tra i grandi fatti anteriori è il gran parapiglia del Quarantotto che si prepara, il biennio sembrerebbe di scarso profitto, e invece no. Fatti ne avvengono e D'Azeglio, l'autore dei «Rimixii» molti, narrati come se a farlo fosse un corrispondente o un inviato speciale. Due anni come nemmeno venti, in presa diretta, giorno per giorno, con la consapevolezza che la storia scritta salta le epoche di riposo con quattro righe sbrigative, ma «dal vero non si salta e bisogna sciropparsi l'epoca a un minuto per volta». Si va dalla pubblicazione dell'opuscolo Degli ultimi casi di Romagna all'avvisaglia di Costituzione che già formicola nei si dice di Torino, e in mezzo ci sono fatti straordinari, incredibili solo qualche mese prima: l'elezione di Pio LX, il congresso degli scienziati a Genova, la concessione dell'amnistia e le riforme, la libertà di stampa, la formazione di un partito moderato, l'istituzione della guardia nazionale, la questione degli ebrei vicini ad essere liberati. D'Azeglio predica chiarezza, pazienza, prudenza: «Bisogna far come i ladri di campagna. Arrivar fin dove possono senza svegliar il cane di guardia». Vede il Papa tre volte in udienza, lo descrive «grasso e fresco che è un piacere, e simpatico che non ce n'è idea», arrivando a chiamarlo «Piuccio nostro». Corrisponde con un numero enorme di persone, da Cavour a Gioberti, da Giusti a Minghetti, da Richard Cobden a Louis Doubet, da Tommaso Grossi a Luigi Carlo Farini a Eugène Rendu, ma gli interlocutori più assidui sono Cesare Balbo, il suo «maestro in politica», Diomede Pantaleoni, il fratello Roberto, la moglie Luisa. Ha presentimenti contraddittori, insegue le trame gesuitiche e sanfediste, dà giudizi altalenanti, fa proteste scaramantiche: «Io non godrà, ho paura, di tutto questo, ma ne godrà spero la mia patria, che non sarà più lo scherno d'Europa». Dice di fare ciò che può ed è oberato di impegni continui, impara anche a parlare in pubblico e a far discorsi o speech in mille diverse occasioni, compiacendosi della bella «tola» (o faccia di latta) che sa ormai mettere nel condire il suo eloquio con le giuste battute. Ma non è un tribuno e ci va con i piedi di piombo, anche se si picca di dir sempre «pane pane e vino vino». La sua vita errante lo porta da Firenze a Genova, da Genova a Torino, poi a Genova di nuovo, poi a Roma, a Torino e di nuovo a Roma, perché «è qui il laboratorio ed il principio di quanto si fa in Italia». Ogni tanto nelle lettere affiora qualche tristezza e qualche malinconia, e anche fa capolino una relazione con l'inglese Geltrude Mac Donali sia pure di timbro platonico. Del vecchio coureur de femmes non sarebbe rimasto, a suo dire, che un noiosetto e fuga ce papillon de nuit. Sono lettere molto spesso sapide, vivaci, con dite in salse dialettali e idiomatiche. La ripetitività di un fatto narrato a più corrispondenti va presa un po' come una macchina da replay. Certo ha ragione chi, come Carlo Pischedda, curando l'Epistola rio di Cavour lamenta l'aridità delle cifre e dei bilanci. Ma questo si sa. Cavour, come professio nista della politica, non aveva obblighi letterari. Lui, Massimo D'Azeglio, come dilettante di genio, per fortuna sì. Giovanni Tesio