Ma il '43 ci serve a capire

Ma il '43 ci serve a capire discussione. Romano risponde a De Felice Ma il '43 ci serve a capire Anche oggi abbiamo perso una «guerra» R~ OSARIO Romeo sosteneva che i confronti storici sono sempre arbitrari e ingannevoli. Prendete la lente d'in I grandimento, avvicinatevi alle vicende fra cui state cercando di stabilire un rapporto di analogia e vi accorgerete che i fatti storici sono come le impronte digitali: si assomigliano soltanto quando li guardate da lontano. Ha ragione Renzo De Felice quando, conversando con Gian Enrico Rusconi nella Stampa di ieri, dice di non condividere la mia analogia fra l'estate del '43 e la crisi italiana di 50 anni dopo. Per scrivere la storia i confronti non servono. Ma possono servire a inquadrare l'attualità in una prospettiva più ampia e a individuare alcune costanti del comportamento nazionale. Non m'interessa in questo momento «fare storia». Mentre il Paese sta cambiando pelle come una lucertola, m'interessa evitare, se possibile, che ceda alla sua vecchia tentazione di «cambiare tutto perché non cambi niente». Se mi metto in questa prospettiva le risposte di De Felice alle domande di Rusconi rafforzano la mia convinzione che il 1943 serve a interpretare il 1993. Il fascismo - sostiene De Felice si reggeva su un coacervo d'interessi e di compromessi. Senza la sconfitta il Paese non avrebbe avuto «né l'interesse né la forza morale» di scrollarselo di dosso. Temo che lo stesso debba dirsi del regime da cui l'Italia è stata governata in questi ultimi anni. Anch'esso, come il fascismo, è riuscito a creare un intricato alveare di vantaggi, favori, privilegi, interessi legittimi o illegittimi, insomma una colossale «società per azioni» in cui la maggior parte degli italiani deteneva una quota-parte. Non potevano ignorare che il sistema era corrotto perché ne erano tutti, più o meno, complici. Erano saliti a bordo col «diritto di mugugno», come i marinai genovesi di una volta; ma decisero di scendere a terra soltanto quando nessuno, nemmeno Craxi, potè più dire «la nave va». La crisi del regime cominciò quando gli italiani si accorsero che esso stava rapidamente perdendo la guerra della prosperità, della modernizzazione, dell'Europa integrata. Non credo che questa constatazione debba essere motivo di scandalo. Finché un regime distribuisce prosperità, sia pur con un forte tasso di malgoverno, è difficile rovesciarlo. Ma non credo che gli oppositori della prima Repubblica fossero più numerosi ieri, nell'Italia profonda, di quanto fossero gli antifascisti alla vigilia della sconfitta. De Felice e Rusconi ricordano che gli italiani (con una eccezione: i comunisti) ebbero idee diverse e confuse sull'organizzazione della Resistenza. Colti di sorpresa da un avvenimento che pochi avevano previsto, discussero lungamente se occorresse costituire un grande esercito partigiano o «accontentar¬ si di piccole unità di sabotaggio e di rapida incursione, in stretto contatto con gli Alleati»; con il risultato che la Resistenza fu il prodotto di circostanze e iniziative individuali piuttosto che di un grande disegno. Alla confusione d'allora fa riscontro la confusione con cui stiamo affrontando il problema delle nostre riforme costituzionali. Vi è da temere che anche la seconda Repubblica, come la Resistenza, nascerà dal caso e dall'improwisazione piuttosto che dal disegno organico di una nuova costituente. Un'ultima osservazione. De Felice ricorda che in alcune regioni si perse, dopo l'8 settembre, la fiducia nella nazione. Scompare il «popolo italiano» e nascono al suo posto i «popoli» cattolico, comunista, friulano ecc. Il pensiero corre na- turalmente ai localismi e ai leghismi dell'Italia attuale. Il confronto è possibile perché il 25 luglio segna per molti aspetti la fine del Risorgimento. I <(padri fondatori» della nazione italiana sapevano che il Paese era stato unificato dall'alto e che occorreva, come disse D'Azeglio, fare gli italiani. Prudentemente, come la Destra storica e Giolitti, o imprudentemente, come Crispi e Mussolini, molti uomini politici sperarono di fare gli italiani con il ferro e con il fuoco, con la guerra e con la gloria militare. Ma la guerra, nella storia d'uno Stato giovane, è come l'ultima puntata di un gioco d'azzardo: se va bene vinci molto, se va male perdi tutto. Con quella del '40 perdemmo anche quel tanto di capitale morale che il Paese era riuscito ad accu¬ mulare faticosamente nelle generazioni precedenti. Poiché i tempi della coscienza non sono quelli delle guerre e delle battaglie, il processo di «denazionalizzazione» dello Stato italiano si è protratto nelle generazioni seguenti. Quello che il fascismo non era riuscito a distruggere, con la sua farneticante retorica guerresca, lo ha distrutto negli ultimi 40 anni la pedagogia antirisorgimentale della cultura cattolica e della cultura marxista. Oggi la crisi ha messo in luce ciò che molti sospettavano da tempo. Non siamo più una nazione, nel senso risorgimentale della parola. Siamo un sodalizio di cittadini che abitano uno stesso territorio, hanno interessi comuni, vedono la stessa tv, fanno il tifo per squadre che partecipano a uno stesso campionato di calcio e sono «cittadini» della Comunità europea. Ma quando una crisi crea differenze fra gli interessi delle diverse regioni e molti italiani hanno la sensazione che il regime sprechi al Sud il denaro guadagnato al Nord, ridiventiamo lumbard, piemontesi, veneti, friulani, toscani, terroni, bianchi e rossi. Non è una constatazione consolante, ma è meglio guardarsi allo specchio e cercare di cambiare piuttosto che raccontare a se stessi ogni giorno una storia sbagliata. Sergio Romano Come il fascismo, la partitocrazia è crollata perché la barca «non va più» Identica confusione: la IIRepubblica rischia di nascere dal caso, come la Resistenza Sopra una manifestazione leghista: quando si profila la crisi, riprendono vigore le «piccole patrie». A lato Mussolini a un concorso ippico romano, nel 1940 Qui a fianco Sergio Romano, nell'altra foto Renzo De Felice

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