CANCOGNI Versilia il mio Far West

CANCOGNI RACCONTI D'ESTAlfr IL VIAGGIO* Da Roma a Viareggio: su quel treno nacque uno scrittore CANCOGNI Versilia, il mio Far West 7Y1 MARINA I ' DI PIETRASANTA I REDEVO che viaggiare 1 i fosse la cosa più imporA^J tante, per me. E invece devo riconoscere, dopo avere viaggiato tanto, che mi ha dato più malessere che piacere». Se non fosse per l'assoluta mancanza di civetteria con cui, chiaramente, Manlio Cancogni sta parlando nel salottino della sua casa sul lungomare di Fiumetto, in Versilia, si stenterebbe a credergli. Ma come, Cancogni? Lei che è stato uno scrittore-viaggiatore, corrispondente dell'Espresso e dell'Europeo da Parigi, del Globo da New York, che ha voltato improvvisamente le spalle al mestiere dell'inviato per insegnare in un'università prestigiosa e remota come lo Smith College nel Massachusetts, che ha impastato delle emozioni del viaggio tanti romanzi importanti: vorrebbe dire che è stato tutto un equivoco? «Io ho solo un viaggio importante, in realtà», conferma con l'aria di chi, a 77 anni, ha deciso di guardarsi indietro senza autoindulgenza. «Il viaggio andata e ritorno Roma-Viareggio. E dirò di più: che la vocazione, diciamo così letteraria - o meglio, il malinteso - è nata per quel treno». Comincia così il racconto di un viaggio fatale che ha deviato il corso di tutta una vita, portando un giovane che aveva tutt'altra inclinazione a cercare di ritrovare e di ricostruire quelle emozioni, scrivendo e viaggiando ancora senza sosta. E' una storia di festose partenze per le vacanze e di ritorni angosciosi, orribili («Fino all'ultima stazione speravo... Speravo anche in un disastro ferroviario, per non tornare a Roma»), quella del treno che ogni anno, dal 1917 al 1933, lo portava ragazzino lontano da Roma, e fatalmente lo restituiva a lei, a settembre, in uno stato di annichilimento. «C'era qualcosa di morboso, sicuramente. C'era che io non ero felice in casa. La nostra era una casa melanconica, perché mio padre era un solitario, buonissimo ma silenzioso. E mia madre era una malinconica di famiglia, depressa. Io non so cosa ci fosse: non sentivo intorno a me quello di cui ha bisogno un bambino... Si era silenziosi... Si leggeva molto, la sera, tutti lì, intorno ad un tavolo, ciascuno per conto suo: io, i miei genitori, le mie sorelle...». Poi, ogni anno, a giugno, un'ubriacatura di gioia accompagnava la partenza per le vacanze in Versilia, in una casa d'affitto sul mare, con l'amatissima zia Annetta, le cugine Carolina ed Antonietta, e tutti i parenti dei genitori, che erano proprio di Pietrasanta. «Conservo della giornata della partenza i ricordi più straordinari. Da casa, in via Donizetti, s'andava in carrozza alla stazione Termini. In cinque, mio padre, mia madre e le mie due sorelle. Mio padre si occupava di tutto, nervosissimo. Era un viaggio molto lungo, allora». E dopo Roma arrivava subito l'esotico, il deserto dell'Agro Romano. Intanto a mezzogiorno era iniziato il rito del pranzo, con le uova sode ed il pollo avvolto nella carta oleata. «Era un pranzetto felicissimo: ma una felicità solitaria, però, perché avevo così poca confidenza. Mio padre era allegro, ma mia madre soffriva un po' il mal di mare. Era sempre molto sofferente, purtroppo. E' difficile per un bambino amare una madre malata... La malattia spaventa, soprattutto un bambino come me, egoista, egotista addirittura...». Un bambino che dai finestrini del treno osserva affascinato le sentinelle far la ronda intorno al carcere di Civitavecchia, e poi la Maremma, il Lago di Burano tra la ferrovia e il ciglio sabbioso sul mare, fino all'apparizione abbagliante dell'Argentario. «Era dopo Orbetello che attendevo l'inizio della civiltà, e cioè dei campi coltivati, che allora cominciavano verso Grosseto. Credevo addirittura di avere delle visioni, vedevo una vela attraversare la campa- gna (c'era un canale, naturalmente, ma io non lo potevo sapere)». Poi, la riviera livornese: «Il treno che entrava nelle gallerie, il buio, il frastuono. E uscire fuori sopra l'acqua, le onde, gli spruzzi che mi sembravano ricadere lentissimi sugli scogli. Allora ritualmente mia madre diceva: "Ecco il castello di Sidney Sonnino". E si entrava nella stazione di Livorno, una delle poche che è rimasta la stessa. Ma la cosa impressionante era la stazione di Pisa, che era una stazione all'inglese, cioè con il capannone d'acciaio e vetro, bellissimo». Lì il treno entrava in un cui de sac, e per ripartire doveva tornare indietro. Il bambino aveva un tuffo al cuore: «Ma si...» cominciava a chiedere spaventato. «Eh, sì - infieriva il padre - si torna a Roma, che ci vuoi fare...». Il treno invece girava ed entrava rapido nella pineta di Migliarino. «Che emozione la foresta... Stare nel corridoio vedendo la vegetazione picchiare sui finestrini, poi improvvisamente saltare via - una radura - e poi tornare di colpo sul treno». Era all'arrivo a Viareggio che la famiglia veniva presa da una specie di collasso, «Forse era la tensione dell'attesa, chissà». Ma non c'era tempo: bisognava prendere il tram con le tendine di cuoio che attraversava la città. «S'usciva a Marco Polo, la Fossa dell'Abate, poi s'entrava nel deserto: dopo il Lido non c'era più niente. Le verghe erano sulla sabbia, come le ferrovie del West. E a un certo momento c'era lo scambio. Si doveva aspettare il tram che veniva da Forte dei Marmi. Da una parte c'era la macchia, con Castel Regina, la tenuta dei Rolandi Ricci, e dall'altra parte le dune e il mare. Ci si fermava lì, ad aspettare. E sempre sentivi ad un certo punto qualcuno dire "Che caldo..."». Cancogni si appoggia allo schienale del divano, inagrissimo nella camicia rosa pallido ed i pantaloni azzurri. Sopra di lui ci sono molti quadri, molto belli: pesci e nature morte di Mario Marcucci, il pittore vi areggino che è stato tanto amato da lui, da Garboli, Soldati, Luzi. Ma perché, Cancogni, diceva prima che quel viaggio è stato l'origine della sua vocazione di scrittore? «Vede, per me questo era il viaggio fondamentale, il viaggio di valore, se voghamo, esistenziale, metafisico, in cui si condensavano la disperazione e la felicità, la vita e la morte, il principio e la fine. Insomma: tutti i significati che da allora mi hanno accompagnato. Ma, ecco una cosa curiosa: fino al '36 - avevo vent'anni - non avevo un vero interesse per la letteratura. Anzi, non ce l'avevo affatto, diciamo la verità. E a scuola non andavo neanche bene in italiano. Per niente: scrivevo malissimo. Mi piacevano la geografia, la storia, mi piaceva lo sport. Ma la letteratura, i libri: proprio no». Cominciano così gli anni dell'università, in cui Cancogni studia giurisprudenza e filosofia, la sua passione e forse la sua vocazione mancata. Poi servizio militare negli alpini, durante il quale una brutta pleurite lo costringe a rimanere solo in tenda la sera - ad ascoltare il treno passare nella valle vicina, pieno di ricordi. «Quando tornai a Roma ne parlai con un mio amico, Carlo Cassola. Perché lui faceva lo stesso viaggio, era toscano e da Roma ritornava a Cecina. E quel viaggio aveva per lui la stessa importanza perché anche lui non stava volentieri a Roma, e anche lui non aveva un rapporto facile con la famiglia: era l'ultimo figlio, aveva fratelli molto più grandi». In quelle conversazioni che avvenivano passeggiando per Roma, in parte nel quartiere della «Vecchia Dublino», come Cancogni aveva ribattezzato le viuzze intorno alla Fontana di Trevi, e in parte alla periferia del quartiere Prati che era il luogo prediletto di Cassola, il ragazzo appena tornato dal servizio militare parlava all'amico dell'importanza enorme di quel percorso in treno, Roma-Viareggio e ritorno. «E lui mi disse, ma perché non le scrivi, queste cose? Ma come, risposi io, si possono scrivere? Sono fatti assolutamente personali, non capisco...». Era così sprovveduto in termini di letteratura contemporanea che le sue letture si arrestavano ai maestri russi, Puskin, Dostoevskij, Tolstoj, e a Kipling. «Ma santo Dio, mi disse Cassola, tu devi leggere Joyce! Mi fece leggere Gente di Dublino, mi fece leggere Dedalus, e io mi dissi, beh, allora forse sono autorizzato, a raccontare. E senza avere assolutamente il senso della nar¬ rativa, credetti di dovere fissare queste emozioni, queste epifanie, in dieci, quindici righe». Pian piano, da allora, quelle righe entrarono in un modo o nell'altro in moltissimi libri: «Senza quel treno non avrei mai scritto». Quanti romanzi, viene allora da pensare, devono qualcosa a quell'esperienza: da La linea del Tomorì, che nel '66 vinse il Bagutta, a H ritorno, che ebbe il Campiello nel '71, a Allegri, gioventù, che nel '73 valse a Cancogni lo Strega, fino a Quella strana felicità, dell'85. E tutti gli altri viaggi, nell'Est, in Alaska, negli Stati Uniti, in Sud America, non contano nulla? «Partivo sempre con una grande eccitazione, una grande emozione all'arrivo, e poi, dopo nemmeno un giorno, la sera all'albergo già un senso di disagio, di fastidio, di noia». Tranne quando, per caso, svegliandosi una mattina sul Reno, su un treno in corsa, non ripensava all'infanzia ed alla scena del treno della Grande illusione di Renoir. «In realtà il viaggio non c'entrava per niente, era soltanto una fuga: anche se per anni ho creduto che per me fosse davvero importante viaggiare. E questa fuga ha originato l'equivoco letterario, che è stato veramente un malinteso. L'ho sempre dubitato, ne ho avuto via via sempre più la convinzione, ora ne ho la certezza assoluta... Ed è una cosa grave, perché mi ha deviato dal mio vero interesse che era speculativo, d'ordine metafisico e mistico, e che avrei dovuto invece approfondire. E poi è stato un abbi: un alibi al mio eccessivo interessamento a me stesso, che avrebbe avuto ragione d'essere finché era in sede speculativa. Ma questo ripiegamento letterario, e cioè occuparsi esclusivamente delle proprie sensazioni, emozioni, provoca dei disastri terribili nella coscienza dell'individuo». Cancogni si alza a cercare un libro, mentre, dietro di lui, al di là della finestra sul lungomare che stasera è stranamente poco affollato, sventolano le bandiere tedesche e americane di un bagno di cui si scorge la scritta «snackbar». Torna con l'edizione garzantiana delle poesie di Caproni, che appoggia sul tavolino accanto a dei libri di Jorge Manrique e Juan de la Cruz. Dice che recentemente, durante un soggiorno a New York, ha ripreso a studiare lo spagnolo. Poi apre il volume di Caproni. Cerca una poesia in cui, casualmente, c'è tutta la sua storia. Ecco, l'ha trovata: «Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai». Livia Manera «Ma santo Dio, mi disse Cassola, devi leggere Joyce» Alla stazione, in carrozza con i genitori, e le sorelle. Il tragitto fatale alla scoperta del selvaggio agro romano. In tram sulla spiaggia a Forte dei Marmi , . La spiaggia della Versilia, nell'immagine sopra, durante la gioventù di Cancogni era un'unica deserta distesa di sabbie fra cielo e mare. Qui accanto mondanità d'altri tempi Nell'immagine grande Manlio Cancogni. Cario Cassola (foto sotto) lo spinse sulla strada della narrativa consigliandogli di leggere «Gente di Dublino» e «Dedalus». A destra James Joyce