1943 i giorni del grande trauma

Il grande storico del fascismo a colloquio con Rusconi Il grande storico del fascismo a colloquio con Rusconi 1943, i giorni del grande trauma De Felice: «Così gli italiani smisero di essere un popolo» EROMA E settimane tra il 25 luglio e l'8 settembre 1943 sono l'inizio del grande trauma nazionale del '43-'45, che le forze politiche e la stessa cultura non hanno mai voluto prendere in considerazione come tale, come "trauma", e che avrebbe inciso profondamente sui decenni successivi, sino ad oggi. Quel trauma si trasforma in paralisi della individualità nazionale italiana e della fiducia nello Stato». Con queste parole Renzo De Felice sintetizza a cinquantanni di distanza il significato del 1943, al di là delle note vicende tante volte raccontate. Ma anche al di là di suggestive analogie con la situazione attuale, come ha fatto con grande efficacia su questo giornale (il 4 luglio) Sergio Romano: «La crisi improvvisa, la liquefazione dell'apparato, il fuggi-fuggi dei gregari e dei clienti, qualche suicidio, la mancanza di un qualsiasi disegno alternativo, il frettoloso ricupero di vecchi leader e facce pulite: tutto rinvia l'Italia del 1993 a quella del 1943». De Felice non condivide questa analogia, che pure coglie, insieme con alcune dinamiche esterne, un punto sostanziale: l'endemica debolezza etico-politica della classe politica italiana, ieri e oggi. Ma anche su questo punto decisivo la prospettiva sul 1943 va definita in modo diverso. Andiamo con ordine, affrontando alcune questioni di fondo: la specificità della crisi del 1943 e la natura diversa fra la «rottura di regime» di allora e quella di oggi, l'atteggiamento della popolazione e quindi gli effetti di lungo periodo del «trauma 1943-45» sino a oggi. «La specificità macroscopica del 1943 - spiega De Felice - è la guerra, che ha morso in profondità nelle carni del Paese, materialmente e moralmente. Non è una constatazione ovvia. Il fascismo subisce il 25 luglio, cioè la fulminea dissoluzione interna che conosciamo, perché la guerra fa da detonatore al coacervo di interessi e compromessi che teneva in piedi il regime. Senza la guerra, o meglio senza il suo esito catastrofico, la classe dirigente italiana, la società intera non avrebbe avuto né l'interesse, né la forza morale di scrollarsi di dosso il fascismo». Il disappunto degli inglesi Ma allora - replico - tenuto conto delle precisazioni fatte sopra, il mutamento politicoistituzionale in atto oggi segna un punto a favore di una società civile diventata più matura e attiva. Persino la discussa tesi di Giuliano Amato circa la continuità della «presa» del partito fascista sulla società trasmessa alla partitocrazia, pur in regime democratico, può essere letta in modo diverso e rovesciato. Oggi cioè in qual che modo la società si sta scroi landò di dosso la partitocrazia senza aver atteso eventi tran matici esterni, ma usando di namismi interni a una democrazia vitale (leghismo compreso). Un punto a favore del 1993 rispetto al 1943, se proprio vogliamo mantenere questa analogia. «Sì», anche De Felice è d'accordo pur con qualche riserva. «La società di oggi è riuscita a reagire, giocando magari su interessi lesi, su contrasti di parti e partiti, su dinamismi insomma che non sono possibili in un regime autoritario come il fascismo. Non c'è dubbio che siamo alla fine di un ciclo. Ma non giurerei sulla durata e radicalità di questo mutamento, dal punto di vista etico-politico. Il sistema di corruzione e connivenza instauratosi negli ultimi decenni in Italia è così profondo e onnipresente nella società stessa che le riserve sono d'obbligo. Comunque è vero che oggi la rivolta morale è maggiore di quella che ha portato al 25 luglio 1943, motivato, lo ripeto, innanzitutto da fattori esterni legati alla guerra». Riprendiamo allora il filo storico che ci porta a un altro punto molto importante: l'incomprensione della classe dirigente italiana della natura e della qualità della guerra che si stava combattendo. «Tutto il vertice del regime, Mussolini per primo, era consapevole che dopo le sconfitte clamorose in Russia e in Africa bisognava trovare una via d'uscita. Ma nella ricerca di queste soluzioni viene fuori tutta la superficialità della classe militare e politica italiana, che ipotizza soluzioni impraticabili, a cominciare dalla pretesa che i tedeschi acconsentissero a una uscita unilaterale italiana dalla guerra. Ma non meno assurda era l'idea di Dino Grandi, che pur era uomo intelligente, di un immediato capovolgimento di fronte, cioè di un riallineamento dell'Italia con gli Alleati. Possiamo immaginare il disappunto degli inglesi di fronte a questo ennesimo "machiavellismo" degli italiani, fascisti sino al giorno prima, per tacere delle ire dei tedeschi». Così dal dilettantismo e dalla incapacità del gruppo dirigente italiano di capire la natura della guerra mondiale scaturirà l'8 settembre, un capolavoro di inettitudine, di irresponsabilità militare, politica e civile. De Felice insiste molto sulla gravità di questa incomprensione in tutti i gruppi dirigenti italiani - politici, diplomatici, militari -, in particolare sulla pretesa di molti di loro che bastasse il 25 luglio per ristabilire una «normalità» di rapporti con gli Alleati. A cominciare dall'offerta di collaborazione militare che pretendeva dare un colpo di spugna a tre anni di dura «guerra italiana» contro gli Alleati. Al mio interlocutore chiedo se anche alcuni esponenti della Resistenza non coltivassero un'analoga illusione nei confronti degli Alleati. Che bastasse cioè il loro personale antifascismo perché si creassero automaticamente rapporti di fiducia, di alleanza politica, di collaborazione militare a livello generale. «Sì, è vero. Soltanto i comunisti, per il loro stretto rapporto con Mosca, avevano idee più chiare e realistiche sulla natura della guerra in corso. Questa consapevolezza però creava un altro problema che sarebbe ri¬ masto irrisolto per la-Resistenza armata italiana: se avere un "grande esercito partigiano", oppure accontentarsi di piccole unità di sabotaggio e di rapida incursione, in stretto contatto con gli Alleati. Era una questione con risvolti non solo militari, ma politici, economici e civili. Il semplice mantenimento di un grande esercito partigiano sollevava infinite difficoltà nei rapporti con la popolazione. I comunisti lo volevano anche perché non escludevano la possibilità futura di una presa del potere nello stile delle "democrazie popolari", per cui era necessario un vasto, affidabile strumento militare. Gli altri settori della Resistenza non avevano le idee chiare sulla questione; gli azionisti più lucidi ne discutevano a lungo senza però arrivare a un risultato soddisfacente, incerti tra il realismo politico-militare e l'utopia del grande esercito democratico da affiancare agli Alleati». Condivido con De Felice la centralità di questo problema, la cui mancata' soluzione diventerà, dopo il 25 aprile 1945, motivo di frustrazione politica e occasione di storiografie ran- corose. Ma è importante ora tornare alla questione della popolazione e dei suoi sentimenti dopo il 25 luglio. Alla notizia delle dimissioni di Mussolini, la gente è esterrefatta e insieme felice, ma con diffidenza. Quello che le interessa è soltanto la pace. Ma le è stato detto con fras'e sibillina che «la guerra continua». E in effetti nei giorni che seguono continuano i bombardamenti, mentre si infittisce la presenza dei tedeschi. In questo clima arriva inatteso l'8 settembre, e la popolazione si sente una volta di più abbandonata, imbrogliata, tradita. E' il trauma di cui si parlava all'inizio, che diventa una chiave di lettura particolare dell'intero periodo 1943-'45. Non a caso uno dei capitoli dell'ultimo volume su Mussolini, cui De Felice sta ancora lavorando, si intitola «La catastrofe nazionale dell'8 settembre e il dramma del popolo italiano tra fascisti e partigiani». Questa ottica privilegia la popolazione piuttosto che le due parti in lotta, senza rinunciare con ciò al giudizio etico-politico sul valore della scelta delle parti combattenti, in particolare sul valore esemplare della scelta resistenziale. Ma porre al centro dell'analisi storica la popolazione e la sua «sostanziale estraneità e rifiuto rispetto sia alla Resistenza che alla Repubblica sociale» significa rilanciare con forza il dibattito su un aspetto cruciale della Resistenza, su un suo vizio d'origine nei rapporti con una grande parte della popolazione frastornata, stanca e soprattutto politicamente diseducata. Respingo la tentazione di approfondire con De Felice il senso generale di questa sua «revisione» della Resistenza. Rimandiamo il discorso a un'altra occasione. Un punto però è importante, anche alla luce di recenti polemiche. Da parte cattolica, cioè, si è avanzata la tesi che nel periodo critico 1943-'45 il mondo cattolico e la Chiesa abbiano interpretato più da vicino e in modo più autentico i sentimenti della po¬ polazione, che non ne voleva più sapere del fascismo, aspirava a una società libera, ma nel contempo voleva evitare i lutti di una sanguinosa «guerra civile». Si è parlato di «resistenza passiva» cattolica per replicare alla tradizionale obiezione di «attendismo» avanzata dalla Resistenza attiva in armi. De Felice non condivide le nuove tesi dei cattolici. Con riferimento all'esperienza veneta in particolare dice: «I vescovi hanno fatto sostanzialmente i diplomatici. Un discorsetto ai partigiani, uno ai fascisti e un altro - se possibile - ai tedeschi. Nessun vero impegno da defensor civitatis. Più importanti e esposti sono stati caso mai i parroci. Ma anche qui occorre distinguere caso per caso. Senza mai dimenticare, però, che nell'intera area veneta è viva la paura degli slavocomunisti che premono e poi superano i vecchi confini nazionali. Per il resto in Veneto come nelle altre regioni italiane con il passare del tempo si estingue la fiducia nella nazione e nel "popolo italiano" si creano i "popoli" cattolico, comunista, friulano, eccetera». Sfiducia in se stessi Siamo tornati così al punto di partenza: al trauma che fa perdere la fiducia degli italiani non solo nel proprio Stato, ma in se stessi, nel senso della propria appartenenza storica nazionale. Le appartenenze di parte si sostituiscono al valore di una appartenenza comune, nazionale, ormai svalutata e inaffidabile. Ma è mai possibile che a distanza di cinquantanni questo trauma non si sia ancora risolto? De Felice personalmente è incerto, ambivalente. «Io in questo Paese-nazione ci credo. Ma la gente non lo sente. Sono pessimista, o piuttosto rattristato». Ma - replico - questo pessimismo non è in contraddizione con i segni di sussulto morale che qua e là si registrano, anche con la voglia di un ritrovato senso civico comune? Una cosa è certa: se questa Repubblica finora non è riuscita, 0 è riuscita soltanto in piccola parte, a creare un senso solidale di appartenenza comune, oggi si offre un'occasione importante. E ad essa deve accompagnarsi l'urgenza di rimeditare la nostra storia, cominciando dal trauma del 1943. In questo senso sono preziosi e importanti gli spunti di riflessione offerti da De Felice anche in questa conversazione. Soprattutto, meritano di essere ripresi, discussi e approfonditi in una prossima occasione, allargando ulteriormente l'orizzonte. Gian Enrico Rusconi «Oggi la rivolta morale è maggiore di quella che portò al 25 luglio» «La "resistenza passiva" dei cattolici?! vescovi facevano i diplomatici, erano più esposti i parroci» «Sema la guerra, la classe dirigente non avrebbe avuto la forza né l'interesse di liberarsi della dittatura» A fianco Gian Enrico Rusconi. A destra un'immagine del 25 luglio '43 a Milano: il busto di Mussolini viene trascinato per le vie della città Nella foto sopra Renzo De Felice. A destra lo sbandamento dei soldati italiani a Roma dopo l'armistizio dell'8 settembre Sopra Dino Grandi, a fianco Benito Mussolini ^:.:x.>;;.-.:.;:v:-:::>>::::^:.:':

Luoghi citati: Africa, Italia, Milano, Mosca, Roma, Russia, Veneto