Così muoiono i soldati della notizia di Igor Man

Così muoiono i soldati della notizia Così muoiono i soldati della notizia Dal Vietnam ai Balcani, le guerre degli «inviati» IN BATTAGLIA COL TACCUINO ANCHE i giornalisti muoiono. Soldati della notizia armati soltanto di taccuino (o di microfono); loro, gli «inviati speciali». E magari gli tocca sentirsi dire: beati voi, dall'ex compagno di scuola diventato direttore generale. Poiché la gente, anzi la brava gggente (con tre g), non sa che il mestiere dell'inviato concede pochi lussi, se lussi si possono chiamare i rimborsi a pie di lista, un buon albergo, e molti, troppi sacrifici. E tuttavia è il mestiere più bello del mondo e magari te ne accorgi quando ti tocca dormire, avvolto in una coperta miserabile, nel freddo del deserto, con sugli occhi un cielo alla Magritte, freddo, tagliato col rasoio. Te ne accorgi allorché ti tocca bere l'acqua delle pozzanghere in Vietnam ma sei felice perché i tuoi occhi hanno stenografato un «fatto». Il sommo De Benedetti raccomandava ai suoi inviati di considerare il proprio servizio «il più importante in assoluto», ignorando tutti gli altri. Solamente così, spiegava, è possibile dare il meglio di se stessi. Giusto. Ma qualche volta accade che vedi morire il tuo ami- co, che la morte ti sfiori e credi, sinceramente credi poiché in definitiva sei soltanto un piccolo uomo fragile, d'aver vissuto «il fatto» e invece il redcapo centrale, al telefono, ti dice: sono contento, l'hai scampata bella, però mi raccomando non più di settanta righe. Certo, in 70 righe si può raccontare anche la battaglia di Waterloo, ma ti vengono le buggere quando, per fortuna tanto tempo dopo, sfogliando i giornali, al tuo ritorno, t'accorgi che lo scandalo dei merletti rosa ebbe più spazio della tua storia. Costata fatica, dolore, stress. C'è l'aneddoto di quell'inviato della radio italiana che torna da Beirut dopo due mesi d'inferno, scampato non si sa come alla morte. Nel corridoio della redazione incontra un vecchio collega. Come va?, gli dice quello. E l'inviato, garbatamente: un po' stanco. A chi lo dici, esclama il collega di redazione. Durante la guerra del Golfo, gli inviati di guerra ne videro poca e la stessa tv, neo-demiurgo della società contemporanea, si ridusse a una sorta di radio imbastardita da poco convincenti videogames, tipo «sala-giuochi» di parrocchia. Questo perché, scottati dal Vietnam, i generali decisero di censurare la guerra ad evitare che i reporters raccontassero quello che avrebbero voluto vedere: tutto, cioè. Ed ecco che queste due «guerre marginali»: quella dei Balcani, quella somala (incivile guerra civile la prima; fosco giuoco al massacro, la seconda), ecco che restituiscono alla sua fatica il corrispondente di guerra. Che non è un eroe ma soltanto un giornalista e, come tale, un uomo, una donna, coi suoi tic e con le sue paure, con la nostalgia di casa, sempre, e il terrore, qualche volta, che gli diano il cambio. Ettore Mo pianse di rabbia perché, ferito, doveva abbandona¬ re il servizio. Egisto Corradi, quando andammo m elicottero a Huè assediata, e bisognava lanciarsi giù dall'apparecchio in volo a due metri dal suolo, atterrando a mo' di atleti di judo, mentre sparavano da tutte le parti come assatanati, si lussò la clavicola destra. Si guardò bene, tuttavia, dal dirlo, ne io ne scrissi: altrimenti «quelli» mi dicono di non andare più sul fatto, si raccomandava Egisto. Adesso Egisto non c'è più. Gli inviati, hanno scritto, come i vecchi soldati non muoiono mai, svaniscono. E Giancesare Flesca, gravemente ferito dagli sgherri dello Scià, a Teheran, uscito dalla camera operatoria si crucciava che l'avessero ferito prima che avesse potuto completare il servizio. La gggente che si lamenta perchéugiornale costa 1300 lire (e magari ne spende 4000 al giorno fra caffè e brioche) ignora quanta fatica ci sia dietro, dentro le pagine d'un giornale. La fatica di chi deve inventarlo giorno dopo giorno, e dirigerne la partitura, la fatica di coloro che debbono comporlo, impaginarlo, di quelli che debbono scriverlo, di quelli che debbono ri¬ cevere i servizi: dal più piccolo cronista volontario al grande inviato. Fatica, rinunce, e, qualche volta, sempre più spesso, la morte. Le sanguinose sabbie mobili della ex Jugoslavia hanno già inghiottito troppi giornalisti e tre, anch'essi inermi, volontari italiani uno dei quali era un giornalista free-lance: Guido Puletti, caro, disperato ideaUsta. Ammazzato come un capretto da lupi feroci travestiti da miliziani. E son quattro i giornalisti morti ieri, sotto la Croce del Sud. Linciati. (Con loro il totale diventa tragico). Colpevoli soltanto, i quattro nostri colleghi, di svolgere un servizio. Perche altro non e, il nostro mestiere, se non un servizio che ogni giorno rendiamo ai nostri padroni: ì lettori. O i telespettatori, cosiddetti. Se a un calciatore salta il menisco, esce dal campo e per un po' non giuoca. Se un pompiere ha la febbre, si mette a letto. La giornalista Ilaria Alpi inviata del Tg3, anziché imbottirsi d'aspirina e dormire, ha fatto «comunque» il suo servizio, lo ha trasmesso, come tutti i giorni. Ed era scampata, lei col suo operatore, al linciaggio; e aveva visto la morte in faccia. Con questo non voglio dire che i giornalisti di guerra siano chissà chi, solo che fare quel mestiere, scelto liberamente, presuppone la capacità di spendersi. Per una entità astratta ma potente, indispensabile, che si chiama libertà di stampa. Questo, la gggente, farebbe bene a tenerlo a mente. Henry Thanner, allora al New York Times, ed Eduard Saab, corrispondente di Le Monde da Beirut, tornavano un giorno come tanti da una incursione nella zona cristiana. Per rientrare in quella musulmana bisognava attraversare una infame terra di nessuno, facendo da bersaglio mobile a quella razza blasfema che sono i cecchini. Guidava Eduard, a tavoletta. Il colpo del cecchino lo prese in piena fronte. Henry riuscì ad agguantare il volante, mise il morso all'automobile, raggiunse l'ospedale americano. «E' morto», gli dissero e lui chiuse gli occhi al caro, duro, lucido Eduard e se ne andò al «Commodore». A scrivere il pezzo. Igor Man Un collega ferito lo nascose per non * essere richiamato m %f^* Mohammed Chafi, della Reuter vittima del linciaggio

Persone citate: De Benedetti, Eduard Saab, Egisto Corradi, Ettore Mo, Giancesare Flesca, Guido Puletti, Henry Thanner, Ilaria Alpi, Magritte

Luoghi citati: Beirut, Jugoslavia, Teheran, Vietnam