Dalla Cambogia con furore per uno scoop sospetto

il caso. Grandi firme contro un giovane collaboratore del «manifesto» HP^ il caso. Grandi firme contro un giovane collaboratore del «manifesto» Dalla Cambogia con furore per uno scoop sospetto TJjl ROMA RI EL caldo tropicale di a Phnom Phen una im■ provvisa polemica tra ±_U giornalisti italiani mandati a coprire le elezioni cambogiane si gonfia e si muove minacciosa verso l'Italia. Tra la fine di maggio e i primi di giugno il manifesto pubblica una serie di reportage dal campo dei Khmer rossi a Pailin, in Cambogia, che si conclude con una clamorosa intervista a un generale di Poi Pot. Clamorosa perché ancora oggi avventurarsi nella giungla alla ricerca di contatti con i Khmer rossi significa mettere in pericolo la propria vita. Arrivare al campo di Pailin e poi addirittura intervistare un leader vicino a Poi Pot è indubbiamente un bello scoop. In Italia i reportage di Pio D'Emilia, un giornalista che collabora regolarmente con il manifesto dall'Estremo Oriente, non fanno molto rumore. E non c'è da meravigliarsi: gli italiani hanno ben altro per la testa in questo tormentato 1993 per potersi appassionare alle controverse elezioni organizzate dall'Onu nella lontanissima Cambogia. Lo sa bene anche il manifesto, che pubblica gli articoli senza particolari richiami. A tremila chilometri di distanza, nella piccola comunità di giornalisti occidentali che coprono l'Estremo Oriente muovendosi da Tokyo a Hong Kong, da Bangkok a Phnom Phen, gli articoli di Pio D'Emilia hanno invece l'effetto di una bomba: lo «stringer» (così viene chiamato il collaboratore nel gergo internazionale dei giornalisti) di un piccolo quotidiano è riuscito a fare il colpaccio che questi veterani dei grandi giornali - da Le Monde a Der Spiegel, dal New York Times al Corriere della Sera hanno inseguito per anni senza successo. Allo sbigottimento, tuttavia, subentra un senso di incredulità. Com'è possibile che Pio D'Emilia sia andato e tornato dai Khmer rossi in così pochi giorni e per di più sotto il naso di tutti gli altri giornalisti giunti in Cambogia per le elezioni? «Troppe cose non qua- m diano», insistono. E così Tiziano Terzani (Der Spiegel-Corriere della Sera), Jean Claude Pomonti (Le Monde), Johannes von Dohanyi (Die Weltwoche) e altri colleghi cominciano a indagare. Prenotazioni aeree, ricevute d'albergo, dichiarazioni di testimoni: mettono insieme una documentazione minuziosa dalla quale deducono che D'Emilia non è stato tra i Khmer rossi durante le elezioni. Perché tanta fatica? Perché dedicare tante energie agli ar- ticoli di un giovane collega? Terzani, il corrispondente che si è dato più da fare per smentire il collaboratore del manifesto, risponde: «Non ho alcuna voglia di fare il Don Chisciotte e non ho nulla di personale contro D'Emilia. Ma c'è un motivo per cui i suoi articoli hanno suscitato così tanto scalpore: tutti noi veterani abbiamo tentato per anni di andare nei campi dei Khmer rossi: Il mitico Edgar Snow scrisse Stella rossa sulla Cina dopo aver accompagnato Mao nella Lunga marcia. E alcuni di noi si illudevano di poter scrivere un giorno un libro simile, una sorta di "Stella rossa sulla Cambogia". Trentatré colleghi sono morti inseguen¬ do quel sogno e se ci stiamo dedicando con tanta energia agli articoli di D'Emilia lo facciamo anche in rispetto per la loro memoria». Pio D'Emilia, raggiunto per telefono a Tokyo dove stava seguendo il vertice G7 per il manifesto, sostiene che Terzani e compagni sono semplicemente gelosi del suo scoop. «Non accetto lezioni da queste "old hands". Questa storia che non si riesce a andare nei campi dei Khmer rossi è pura leggenda. Dicono che le strade sono minate? Ebbene altre non lo sono». E consiglia ai suoi colleghi più anziani e in particolare a Terzani di tornare on the road «anziché vivere di rendita, ricordi e copyright». E il manifesto? Terzani ha scritto una lettera al direttore Luigi Pintor: «Dimmi che hai le prove fisiche o la certezza morale che quel che il tuo giornale ha pubblicato sulla Cambogia è il frutto di una onesta ricerca di quella verità». Questa prima lettera è rimasta senza risposta, e così pure una seconda, nella quale Terzani, deluso dal silenzio di Pintor, lancia un appello al direttore del manifesto contro i falsi giornalistici: «Resto convinto che fra il vero e il falso ci sia una differenza. La nostra casa è quella giornalistica: ebbene cominciamo a spalare da lì». In redazione spiegano che Pintor non ha voglia di mischiarsi in questa storia. Difendono D'Emilia e attribuiscono la tenacia di Terzani a un suo presunto «impazzimento». Questi i fatti, dunque. E se un giorno le Nazioni Unite istituissero un tribunale per i giornalisti in cui giudicare reportage sospetti, allora questa vicenda potrebbe essere chiarita fino in fondo. Ma in essenza di tribunale, e a meno di un'improbabile confessione da una delle due parti, il verdetto rimane aperto. Andrea di Robilant Un gruppo di inviati come detective: è tutto falso Sotto accusa una serie di reportage dal campo dei Khmer e una clamorosa intervista con un generale di Poi Pot m HP^ Qui accanto una immagine dal film «Uria dal silenzio». In alto Tiziano Terzani e Luigi Pintor In basso due vittime della guerrìglia