Il ragazzino e la mafia che non c'è di Enrico Deaglio

Fernando Savater LA STORIA Il ragazzino e la mafia che non c'è FTRAPANI UORI stazionano i bersaglieri, nel deserto silenzioso del primo pomeriggio. Per il caldo - 40 gradi, più 86 per cento di umidità, più scirocco - a me scendono rivoli d'acqua giù dal collo e non riesco a capire come facciano a resistere loro, infagottati nel giubbotto antiproiettile. Dentro, per fortuna, c'è un minimo di aria condizionata. H dentro è il Palazzo di Giustizia di Trapani, che oggi, a modo suo, vive una giornata storica. Tra poco, infatti, un giovane sostituto procuratore svolgerà la requisitoria contro diciannove imputati di associazione a delinquere di tipo mafioso. La prima nella storia della città. La prima nella storia della giustizia italiana a Trapani. Fino ad oggi, infatti, la mafia a Trapani non è esistita. E dire che di persone ne sono morte tante: 200 negli ultimi dieci anni nelle guerre di mafia. E poi il giudice Giacomo Ciaccio Montalto; la famiglia Asta che saltò in aria al posto del sostituto procuratore Carlo Palermo; il sociologo Mauro Rostagno, che la mafia denunciava ogni giorno da una televisione locale. Ma per la giustizia, la mafia a Trapani non è mai esistita. Tutte queste persone sono state uccise per «un niente». Entra la Corte. Presidente Gaetano Trainito, giudici a latere Maria Borsellino (non parente) e Vincenzo Alabiso, da Napoli. Pubblico ministero, Luca Pistorelli, trent'anni appena compiuti, da Padova. Che si sia arrivati a questo processo, Pistorelli lo considera un successo. Lui è un «giudice ragazzino», di quelli che un tempo il presidente Cossiga sfotteva. Un ragazzo alto, brillante, colto, tipo college americano. Si è preso delle montagne di carte sepolte e le ha portate a conclusione. Quando arrivò a Trapani non volle rinunciare a fare la sua vita normale. Si portò da Padova una grande collezione di compact e la chitarra, una cassa di libri, inclusa l'opera completa di Wittgenstein. Approntò spiritose segreterie telefoniche. Una aveva la colonna sonora di Apocalypse Now e le prime parole di Martin Sheen sotto la pala del ventilatore: «Sono qui, nell'inferno di Saigon...». Ma poi Pistorelli ha dovuto rinunciare alla vita libera. Ormai è costretto ad alloggiare, per motivi di sicurezza, all'interno del tribunale ed è scortato per le ventiquattro ore. In aula non c'è nessun imputato. Pistorelli inizia la sua requisitoria e, da come comincia, si capisce che è sicuro di sé e che possiede la materia. «Mi trovo a sostenere l'accusa contro qualcosa che si dice non esista», esordisce. «Lo ha detto di recente il presidente dell'Associazione industriali di Trapani, di cui taccio il nome per decenza. Lo disse l'ex sindaco di Trapani, di cui taccio il nome per decenza». Gli avvocati ascoltano, con la faccia seria. Pistorelli continua, diretto, concreto. Il processo ha radici antiche, fu iniziato più di vent'anni fa, ma poi si perse, morì, dopo che erano state acquisite decine di testimonianze. Il perché non si sa. Imputati sono diciannove persone, capeggiati dai fratelli Minore. Agli atti ci sono delitti orribili, sequestri di persona, cadaveri avvolti nel filo spinato e gettati nel fiume Belice, traffici di droga, estorsioni, la «commissione» di Cosa Nostra di cui i Minore facevano parte. Va sicuro, Pistorelli, nella ricostruzione di fatti che occupano un ventennio, tra omicidi, parentele, soprannomi, chiede condanne per 64 anni. Chiede, soprattutto, alla Corte di condannare perché «se voi non li condannerete, allora sarà sancito quello che viene detto, che la mafia a Trapani non esiste». La requisitoria è finita. Ad ascoltarla, oltre agli avvocati e ai cronisti locali, non c'era nessuno. Trapani, come al solito, è indifferente. A Palermo, distante appena settanta chilometri, si mettono lenzuoli ai balconi. A Trapani sarebbe considerata una pazzia. Trapani è quieta, con il suo piccolo aeroporto in cui, secondo l'accusa, atterrò in gran segreto l'onorevole Andreotti. Trapani è quieta, con le sue logge massoniche frequentate da amministratori e mafiosi. A Trapani, se non era per un giovane giudice venuto da Padova, processi per mafia non ne sarebbero mai stati portati a termine. Enrico Deaglio