ITALIA DELLA SERA di Oreste Del Buono

ITALIA DELLA SERA ITALIA DELLA SERA Afeltra, mezzo secolo di giornalismo Dentro e fuori le stanze del «Corriere » ze estive ad Amalfi del critico musicale del Giornale d'Italia Matteo Incagliati, fu notato e segnalato al leggendario direttore Alberto Bergamini e invitato a lavorare a Roma. Ci lavorò sino al delitto Matteotti quando, per le violente polemiche condotte, dovette abbandonare il Giornale d'Italia come il direttore Bergamini. E fu assunto al Corriere, insieme con Paolo Monelli, proveniente dalla Tribuna, e con Orio Vergani, proveniente dall'Idea Nazionale. A quel tempo il direttore del Corriere della Sera era Ugo Ojetti, succeduto a Pietro Croci, il più anziano dei redattori che aveva tenuto l'interim dopo il forzato abbandono di Albertini. Con Ojetti Cesare Afeltra si trovò bene e venne nominato vice redattore capo. Ma Ojetti cadde presto, e vi fu un breve interregno di Maffio Maffii. La lotta perché al vertice del Corriere ci fosse un uomo di assoluta fiducia per il Pnf ferveva, e si placò solo quando in via Solferino arrivò Aldo Borelli, già direttore della Nazione, e ostentatamente fascista per convinzione, non per oppor- ma poi successe qualcosa di inaspettato. Quando il senatore Aldo Rossini, presidente dell'Ente Risi, organizzò l'ufficio stampa ne offrì la direzione a Gino Rocca, allora segretario del sindacato lombardo dei giornalisti, redattore del Popolo d'Italia e autore di spettacoli e libri fortunati. Ma a Gino Rocca venne allora in mente quel disoccupato antifascista, capace e fiero che rispondeva al nome di Cesare Afeltra, e lo suggerì per quel posto. Cesare Afeltra si liberò dalla sera alla mattina dell'incubo della sopravvivenza e riguadagnò oltre ai soldi anche un poco di fiducia nella solidarietà professionale e nella vita in genere. Ma non si liberò minimamente dalla smania di Gaetano di fare il giornalista. Gaetano raggiunse Cesare nel 1937, andando a vivere con lui al numero 18 di via San Marco, a pochi passi dal Corriere. Era euforico per essere finalmente arrivato a Milano, e tutto aumentava la sua euforia. Trovò il fratello maggiore bello come un dio, elegante, pieno di soldi, con un'amante e tanti amici famosi tra cui spartirsi andando a man- e ogni sua mossa futura. Il resto lo faceva il suo estro, la sua voracità di lavoro. La chiamata dal Corriere arrivò quello stesso anno. Appuntamento dal direttore a mezzanotte. «Chi siete?» lo investì, burbero, Aldo Borelli che sapeva come sgomentare i novizi. «Sono Gaetano Afeltra». Gaetano sudava freddo. «Il figlio di Cesare Afeltra?». «No, suo fratello». «Siete voi che fate quelle pagine sull'Ambrosiano!». Aldo Borelli sapeva anche come esaltare i novizi, mandarli all'assalto. Allora si usava così, si sorvegliava la concorrenza, si stabiliva chi era bravo, chi aveva un buon rendimento, e poi si cercava di prenderlo e di valorizzarlo, pur senza allentare la disciplina. Nell'autunno 1942 al Corriere si andava sbloccando una situazione che ave^a minacciato di essere di stallo. Michele Serra era stato nominato redattore capo al posto di Oreste Rizzini entrato in attrito con lo stesso direttore per avere preteso l'assunzione del figlio Enrico. Ma, per mantenere l'equilibrio, il direttore aveva promosso allo stesso grado di redattore capo Michele .... . Mottola, con l'intesa che i due Micheli si al5i£sfeii_, ternassero al comando di sei mesi in sei mesi, una staffetta. Michele Serra aveva chiesto un proprio impaginatore. E come tale fu assunto Gaetano Afeltra. Nel luglio del 1943, Gaetano Afeltra lavorava al Corriere da otto, nove mesi, ed essendo il più giovane e l'ultimo arrivato doveva naturalmente sostituire via via questo o quel collega che andava in vacanza. La sera di sabato 24 luglio le notizie del giornale non lasciavano prevedere nulla di particolare. Continuava lo sfacelo. In prima pagina c'era una corrispondenza sullo sbarco alleato in Sicilia; un resoconto dei disastri provocati da un'incursione aerea su Bologna, con danneggiamento della casa di Guglielmo Marconi e la distruzione della basilica di San Francesco; la riconferma della chiamata alle armi delle classi dal 1907 al 1922, e, in cronaca, l'invito a ritirar le patate della tessera entro il 30 luglio. Il giornale venne chiuso come di solito alle due. Verso le tre e mezzo arrivò una nota di servizio su velina gialla trasmessa da Roma agli stenografi che recitava: «Si è riunito il Gran Consiglio, la riunione è terminata, nessun comunicato». Come tutte le altre notti, Michele Mottola, redattore capo di turno, Ferruccio Lanfranchi, allora impaginatore capo, e Gaetano Afeltra lasciarono il Correre della Sera alle quattro, i primi due in macchina, il terzo a piedi per quei pochi passi sino al numero 18 di via San Marco. Il giorno dopo fu una domenica stagnante. Gaetano Afeltra si svegliò tardi, alle tredici, e sarebbe dovuto tornare al giornale alle quattro del mattino per preparare l'edizione del lunedì che, da tassativa disposizione governativa, poteva venir composta solo dopo quell'ora. Quell'edizione veniva fatta una volta da Michele Mottola e un'altra dal vice redattore capo Dario Gramigna. Ma Gramigna era in ferie e così toccava, naturalmente, all'ultimo arrivato sostituirlo. Occorreva, dunque, andare a letto piuttosto presto, quella domenica, in previsione della levataccia delle tre, tre e mezzo. Ma come faceva a trovar sonno alle ventidue uno abituato ad addormentarsi alle cinque? La sera del 25 luglio 1943, comunque, Gaetano Afeltra andò diligentemente a letto, all'ora per lui insolita. Ma indugiò a leggere, e faceva un gran caldo con le imposte sbarrate per l'oscuramento. Non si era ancora addormentato, comunque, quando dalla via San Marco gli arrivò un grido: «Abbasso il fascismo! Abbasso Mussolini!». Il solito ubriaco, ce ne sono tanti ormai, pensò Gaetano Afeltra, ma non si trattava di una sola voce. Si trattava davvero di tanti. Le voci s'infittirono come un temporale estivo. Così cominciarono i 45 giorni che Gaetano Afeltra ci racconta nel suo ultimo libro con aggressività giovanile, straordinaria attenzione, ritmo precipitoso, capacità di coinvolgimento proprio e altrui. Oreste del Buono

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