«Così Riina mi ordinava le stragi» di Giovanni Bianconi

Ai giudici: «L'ex sindaco non si piegava», «Ho fatto arrestare u' curtu perché voleva la mia testa» Ai giudici: «L'ex sindaco non si piegava», «Ho fatto arrestare u' curtu perché voleva la mia testa» «Così Riina mi ordinava le stragi» Di Maggio: il boss voleva uccidere Orlando ROMA. «Dica il suo nome». «Baldàssare Di Maggio, nato a San Giuseppe Jato il 19-111954». Dice proprio Baldàssare, con l'accento sulla seconda a e una r sola, alla siciliana. «Chi sono i suoi avvocati?». Silenzio. Il presidente: «Su u scurdò?». Di Maggio: «I nómi non me li ricordo, ma sono qui». Il mafioso che ha consegnato Totò Riina ai carabinieri, il pentito che accusa Andreotti di essersi incontrato e baciato con il «dittatore» di Cosa Nostra, l'uomo d'onore che pressoché incensurato - s'è accollato più di venti omicidi, avvia così la sua prima apparizione in pubblico davanti alla corte d'assise di Palermo. Nell'aula bunker di Rebibbia, circondato da 5 carabinieri che 10 proteggono da obbiettivi e telecamere, Baldassarre Di Maggio si presenta in completo grigio, occhiali da sole, capelli corti, barbetta rossa rada. Si siede e racconta la sua vita da mafioso, l'iniziazione secondo il solito rito del sangue e del santino bruciato, il primo omicidio (di una persona che conosceva solo con 11 soprannome: «Caino»). E parla della sua principale carta di credito: come portò i carabinieri, il 15 gennaio scorso, alla cattura di Salvatore Riina. Una versione ancora inedita, che in parte contrasta con quella «ufficiale». Eccola, dalla viva voce di Baldassarre Di Maggio. «Io mi ero allontanato dalla Sicilia perché avevo capito che mi volevano fare fuori. Fui arrestato a Borgomanero, per il possesso di una pistola, e da quel momento ho deciso di mettermi in mano alla giustizia, di collaborare. Dopo due giorni mi hanno trasferito a Palermo, ho conosciuto un capitano e altri ragazzi. Gli dissi: "Riina ce l'hanno in mano i Sansone, trovate loro e troverete Riina"... Mi hanno fatto vedere dei filmati, e io riconobbi la moglie di Riina e i figli, lui doveva essere là... La mattina del venerdì (15 gennaio, ndr), mi hanno caricato dentro un furgone e ci siamo messi davanti all'uscita di una casa. Verso le 8 meno 10 arriva Biondino (l'autista di Riina, ndr), e lo vedo entrare. Dico: "Tra poco deve uscire Riina". Passano dieci minuti e Riina esce. Dico: "E' questo". E loro: "Sei sicuro?". 'Al mille per mille, prendetelo che è lui'. E così l'hanno preso». Di Maggio non vedeva Salvatore Riina da quasi un anno, dal marzo 1992. Lui era un uomo d'onore dalla fine del 1981, e si era messo al servizio dello «zio Totò» fin dal primo momento, da quando lo incontrò in una casa la sera dell'omicidio di «Caino». «Dopo la cena - racconta il pentito - Giovanni Brusca mi ha detto che quello era Totò Riina di Corleone. "Tu adesso piano piano lo conosci", mi disse, "e quando vedi che lui ha bisogno abbandona chiunque, pure me, e fai quello che gli serve''». Di Maggio obbedì, e in quell'incon tro del marzo '92, dopo 10 anni di servigi, Riina parlò in favore di Baldassarre davanti ai Bru sca che invece non lo vedevano più di buon occhio. «C'erano Giovanni Brusca, Riina, Leoluca Bagarella. Riina disse: "Vi sembra giusto che trattate così Balduccio, dopo che ha fatto tanto per tutti noi?"... Brusca disse che io avevo delle pistole e Riina rispose: "E perché, se passa un cane e lui gli vuole sparare deve venire prima da te a chiedere la pistola? O se c'è qualcuno che non gli va? La può tenere la pistola... Voi vi dovete parlare, stare assieme e rispettarvi"». Una riconoscenza che sembrava sincera, quella di Riina verso Di Maggio, ma il mafioso di San Giuseppe Jato non si fidò e prese il largo, fino ad arrivare a Borgomanero. Era scappato anche da Riina, il suo «padrone» di una volta: il boss ordinava e lui eseguiva. Omicidi, riscossione di tangenti, ma anche piccoli servizi di vita quotidiana. Come quando «zio Totò», nel 1987, latitante già da vent'anni, aveva mal di denti. «Pino Sansone mi venne a cercare - racconta sicuro Di Maggio ai giudici - e disse: "Lo zio ha bisogno di un dentista, tu sai quello che devi fare". Vado da un dentista che conoscevo, un certo Masotti, e gli riferisco: "Deve venire una persona, ma non ci deve essere nessuno. E' una cosa riservata". E lui: "Va bene, possiamo andare pure a casa mia, qui accanto. Ti aspetto davanti al portone, tale giorno a tale ora, a piazza Politeama"... Lo riferisco a Sansone e quel giorno portiano Riina dal dentista. Il dottore ci fa accomodare, io e Pino Sansone beviamo qualcosa, Riina va dentro, poi esce e lo riaccompagniamo a casa». Per un paio d'anni Baldassarre Di Maggio fu nominato reggente del «mandamento» di San Giusepe Jato, nel periodo in cui Bernardo Brusca era in carcere. Per questo quell'uomo d'onore ancora giovane e utilizzato soprattutto come killer, partecipò a qualche riunione della «commissione» di Cosa Nostra. «Una volta Riina ci convocò per parlare delle elezioni politiche. Ci disse che la de non si era interessata adeguatamente al maxiprocesso, e quindi bisognava dargli una lezione. Bisognava votare per qualunque altro partito, a parte il pei. Erano tutti d'accordo, tranne Nino Madonia che disse: "E se io ho uno della de che si mette a disposizione, lo posso far votare?". Riina rispose: "Sì, questo si può fare"». In un'altra riunione, di poco successiva, il «boss dei boss» annunciò gli omicidi del 1992, quelli dei giudici Falcone e Borsellino. Racconta Di Maggio: «Riina ci disse: "O prima o dopo si devono ammazzare Falcone, Borsellino e il sindaco Orlando. Come e quando avverrà, poi si vedrà. Se questa cosa succede, magari nel vostro territorio, voi già sapete che l'abbiamo fatta noi e che si doveva fare". Falcone e Borsellino gli davano fastidio, per Orlando il motivo preciso non lo so. A quanto pare nella politica non si metteva a disposizione». L'interrogatorio di Di Maggio va avanti sulla sua attività al servizio di Cosa Nostra: dei rapporti con i politici, degli «incontri pericolosi» di Giulio Andreotti, in questo processo dove si giudica degli omicidi Reina, Mattarella e La Torre, non si parla. Adesso l'uomo d'onore di San Giuseppe Jato racconta delle forniture di armi alla mafia, fatte all'estero: «C'era uno, chiamato "u gattareddu' che veniva tre volte l'anno dalla Svizzera, a Pasqua, Natale e Ferragosto. Portava una volta dieci pezzi, una volta cinque. Fucili a pompa, mitragliette, 38, 357, anche due bazooka e l'esplosivo. Io pagavo con i soldi del ricavato dei lavori della provincia, la percentuale che prendevamo sugli appalti che controllava Riina, e Riina faceva tutti i conti. Le armi le tenevamo in due cappelle del cimitero di San Giuseppe Jato, senza che i proprietari lo sapessero. Tanto, se le scoprivano, avrebbero chiesto a noi. Le nascondevo io, sotto le lapidi». Giovanni Bianconi A sinistra i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, qui sopra l'ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando