L'ITALIA nel juke box

Vittorio Salvetti, racconta, dal '64 ai giorni nostri. E stasera si ricomincia Vittorio Salvetti, racconta, dal '64 ai giorni nostri. E stasera si ricomincia V ITALIA nel juke box VERBANIA DAL NOSTRO INVIATO Stasera il carrozzone del Festivalbar prende il via su Italia 1 da Lignano Sabbiadoro. Ma il suo patron Vittorio Salvetti, 56 anni portati maestosamente, spirito gaudente e gentile parlata a raffica, è già avanti con i lavori. Lo abbiamo incontrato a Verbania, nella registrazione di una delle puntate successive: e abbiamo celebrato con lui il trentesimo compleanno di questa creatura che gli è cara come un figlio; ci ha raccontato una parabola già in qualche modo nota, quella di una manifestazione nata alternativa e diventata una gran ubriacatura di sorrisi e miss, di canzoni e sponsor e spot. Ma ogni scarrafone è bello 'a mamma soja. Tre miliardi e mezzo di costo, un guadagno «giusto» come dice diplomaticamente il patron, il Festivalbar cominciò in un'Italia che era un altro mondo. «Era il 1964, me lo ricordo molto bene. Avevo un amico, Mario Chinea, che importava i juke box Ami. Avevo 26 anni, vivevo come ora a Padova, sapevo che d'estate il nostro unico divertimento era alla sera metterci al bar Romano, vicino al Pedrocchi, ad ascoltare le canzoni insieme e poi a votarle. Ognuno aveva la sua preferita, spesso americana perché allora la musica Usa non andava in radio. Eravamo già d.j. Andai alle case discografiche a chiedere che facessero un disco speciale: un 45 giri con due diversi cantanti per facciata. Per dire, 10 dischi avevano 20 lati A. Mi ricordo che nel '65 "Tanta voglia di lei" dei Pooh aveva insieme "Oye corno va" dei Santana: il disco abbiamo dovuto sostituirlo tre volte nel juke box, era talmente gettonato da una parte e dall'altra che si bucava. Era vinile di recupero, quello dei juke box, meno robusto». Come si contava la popolarità, nei juke box? «C'era un machingegno, un chiodino che si alzava dietro ogni disco suonato: serviva al noleggiatore che, aprendo il macchinario, si ac corgeva dei dischi che non funzionavano. Al Festivalbar, noi faceva mo tenere per 3 giorni sotto controllo 1000 apparecchi dai vigili: una specie di pre-doxa». Il suo business, qual era? (Avevo un'organizzazione che vendeva dischi ai juke box. Per fi nanziare il Festivalbar, andavo dalle case discografiche, mi facevo dare il disco a 100 lire, che non era poco allora: il costo della stampa era 70 lire e 20 andavano alla Siae; rivendevo il disco ai noleggiatori di juke box a 400 lire. La differenza finanziava la manifestazione. Dalla Rai mai una lira». Andò subito in onda, la manifestazione? «No. Il primo anno ci furono dieci minuti del finale in "Cronache Ita liane". Allora esistevano soltanto Ravera e Radaelli, uno con il "Di sco per l'estate" e l'altro con San remo e poi il "Cantagiro". Io arri vai nel mondo del disco con questa idea alternativa dei juke box, con le canzoni rock che la Rai non pas sava, avendo ancora una forte commissione di censura. Il primo disco che mi ricordo aveva su un lato Little Tony con "Riderà", sul l'altro Peppino Gagliardi». Perciò lei era un alternativo Anche di sinistra, per caso? «Io non ci pensavo ma era così Non era nella mia testa un discorso politico. Il mio discorso era: perché la Rai manda in onda solo quello che vuole? Il più grosso successo del juke box fu un disco erotico, "Je t'aime moi non plus". Però quel disco lì si consumò perché lo sentivano al bar tutti insieme, fa cevano i commentini. E nel '68 i ju ke box arrivarono a 38 mila esem plari in tutta Italia: vinse "Acqua azzurra Acqua chiara" di Battisti» Il Festivalbar uscì indenne anche dal '68? «Lo facemmo ad Asiago, senza dare troppo nell'occhio». Come fu l'ingresso in video? «La discografia aveva chiesto di riprendere almeno la serata finale. Il Cantagiro si esauriva il 5 luglio, non c'era niente che facesse il resoconto dell'estate. Il secondo canale, che non era ancora Raidue, mandò in onda il Festivalbar nel '67: il primo anno di Battisti che restò con me fino al '70. La prima volta vinse fra i giovani con "Prigioniero del mondo": si cominciava a parlare anche dei complessi, avevo i Dik Dik, i Camaleonti, l'Equipe '84.1 cantanti venivano gratis, io avevo il mio commercio regolare con i dischi ai noleggiatori». Battisti com'era? «La prima persona che conobbe venendo da Poggio Bustone a Milano fui io. Era il '66. Avevo appena fatto una trasmissione in tv con Celentano, mi si avvicinò questo ragazzo fuori dall'albergo, mi disse: "Ahò, ti ho visto in tv l'altra sera con Celentano. Me lo dovresti presentare". Era finita l'epoca in cui le ragazze scappavano di casa per fare il cinema, cominciava quella in cui scappavano per andare a conoscere Celentano che aveva appena fondato il Clan. Battisti mi disse che faceva l'autore, che sapeva suonare: lo presentai ad Adriano, lavorò un anno, nel Clan, scrisse "Per una lira" per i Ribelli. Poi passò con Ricordi, sempre come autore, dava una mano al papà di Mogol. Scriveva per gli altri e faceva il turnista. Vinse tre Festivalbar: nel '68 con "Acqua Azzurra Acqua Chiara", nel '69 con "Fiori rosa fiori di pesco". Nel '70, ho dovuto cambiare il regolamento perché vinceva sempre lui, e venne come ospite d'onore a consegnare il premio agli Afrodite's Childs. La sua canzone era "Pensieri e parole". Mi piace ricordare la sua serietà professionale. A fine giugno gli avevo dato appuntamento per la finale del 2 settembre ad Asiago: "Nun te preoccupa - aveva risposto - io quest'anno vado per la prima volta all'estero ma torno". Partì con quella che diventò poi sua moglie. Il giorno della finale, non si avevano notizie: ero disperato. All'improvviso arriva il Tolin, un mio addetto, e mi dice: "Ghe xe un mato, vestito male e con i capeli par aria, el dise che se ciama Cesare Battisti: lo faccio entrare?". Qual è stato l'anno di maggior successo? «Il '72. Alla base di tutto, c'era il guadagno assicurato per ogni categoria: 38 mila dischi stampati solo per juke box era già un fatturato importante; ma guadagnavano il proprietario del bar e il noleggiatore, c'era promozione dei cantanti». E questa volta, proprio nei trent'anni, niente finalissima a Verona, dunque, grazie al ministro Ronchey. «Mi ricordo la prima volta che ci sono arrivato all'Arena, nel '74. Asiago, dov'ero cresciuto, era diventata troppo stretta. Anche allora l'Arena non era mai più stata data alla musica leggera dalla morte di Mario Riva. Mi chiamò un prete meraviglioso, monsignor Avanzini: "El sindaco xe amico mio, vieni che facciamo il Festivalbar all'Arena". Tenni l'orchestra dell'Arena condotta da Ennio Morricone, venne Placido Domingo a cantare una canzone e fu fischiato: era un errore mio, il pubblico di Domingo non c'era, i ragazzi volevano Suzi Quattro, Gloria Gaynor, la discomusic che impazzava allora. Ma il ministro Ronchey fa male, a tenere disattivata l'Arena per tanto tempo: potrebbe fare la fine dell'Arena di Pola, ormai inservibile, divorata dalle erbacce». Quanto contava allora la tv? «Poco. Al massimo, facevo la serata di partenza e quella di arrivo, sempre a mie spese. L'ultimo contratto con la Rai, dell'82, era ancora gratuito. Nel frattempo mi faceva la corte Berlusconi, mi mandò a dire che mi conosceva da vent'anni. Io mi ricordai di lui solo quando lo vidi, in via Rovani». Perché? «Aveva cantato "La vie en rose" con me in una serata a Padova, al Caffè Pedrocchi, in un concorso di voci nuove. Abbiamo la stessa età, avevamo fatto mattina ascoltando già allora il suo sogno americano: continuava a parlare di televisione. Firmammo nel marzo '83, da lì cominciammo a fare più serate tv». E cominciò l'imbottitura di sponsor e spot. Si ricorda come dovette modificare i ritmi in funzione della pubblicità? ((All'inizio avevamo solo tre sponsor. Noi non ci pensavamo, spezzavano il filmato in sede. Dall'88, le interruzioni le prevediamo noi ed è molto meglio: non ti trovi la canzone sfumata a metà. Mi arrabbiavo, ma io lì i soldi li incassavo, alla Rai no. Adesso, è diventata routine, è il mio mestiere. Sono contento di esser passato a Berlusconi, perché non sono stato obbligato ad aver rapporti con la politica». Quando tramontò il juke box? «Dal '75 in poi, ogni anno ce n'erano duemila di meno. Andavano nel Terzo Mondo, verso nuovi lidi: pensi che io in casa non ne ho neanche uno. Nel frattempo cominciavano le radio private, che li sostituivano, e io diedi i dischi alle radio: fu così che conobbi Cecchetto. Quando cominciarono a chiamarmi patron capii che non ero più in target, e chiamai lui». E adesso, Festivalbar è tutto un fiorire di miss cossialunga piuttosto che di canzoni. «In Fininvest da tre anni si dice: le canzoni non fanno audience, bisogna mettere le donne, inventare le miss. Io ho lottato per mettere in gara le canzoni: se proprio ci debbono essere le ragazze, che siano lì, quest'anno non necessariamente in costume da bagno, a fare le ragazze del juke box». Il trentennale sarà l'ultimo Festivalbar? «Ho sempre detto così ma ancora non lo so. Magari, l'ultimo giorno cambio idea. Se non faccio più il Festivalbar, che faccio? Non so neanche giocare a carte». Marinella Venegoni SPETTACOLI Martedì 6 Luglio 1993 to pm ao 21 acconta, dal '64 ai giorni nostri. E stasera si ricomincia ParV ITALIA nel juke box CanconROMA. ro, la serconfessal'hanno ma ammcettata srarmi core, che canzoneAntonelmato aRonconcon MaprattuttLeila e nio di ((si può televisioquella c((Avanzicesso, dstare unsé, ma insulsi Qui accanto Vittorio Salvetti. Nelle foto intorno al juke box troviamo alcuni protagonisti dell'ormai storico Festivalbar: i Dick Dick, i Camaleonti e Lucio Battisti