Domingo pagliaccio e fulmini all'Arena

Verona, bella inaugurazione per sedicimila Verona, bella inaugurazione per sedicimila Domingo pagliaccio e fulmini all'Arena VERONA. Con «Cavalleria Rusticana» e «Pagliacci» scelti quest'anno per l'inaugurazione della Stagione lirica, l'Arena torna all'altezza dei suoi fasti migliori: un bello spettacolo affidato alle cure di Gabriele Lavia; un direttore autorevole come Yuri Ahronovitch; cantanti a prova di loggione, come Domingo, la Gasdia, Leo Nucci, Ghena Dimitrova, Kristjan Johannsson. Risultato, un affollamento ed un successo che raramente si registrano alle prime, con lunghissimi applausi per Placido Domingo, tenore in forma smagliante, attore come sempre in grado di creare un personaggio anche quando non c'è, come Canio dei Pagliacci, un fantoccio nato dall'incrocio delle più scontate gesticolazioni veriste che prendono vita solo nel monologo finale del primo atto cui, l'opera deve la propria fortuna. Eppure Domingo conferisce a Canio una presenza imperiosa, valorizzata dalla regia di Gabriele Lavia, con scene e costumi di Giovanni Agostinucci: una regia che, come raramente avviene in Arena, punta sui singoli cantanti-attori, curandone i gesti e i movimenti sin nei minimi particolari e ottenendo da loro prestazioni superbe. Le acrobazie che cecilia Gasdia e Leo Nuci sono chiamati a fare nella scena della recita vengono eseguite con puntualità di smaliziati saltimbanchi: piroette, salti, zuffe, rotazioni a trecentosessanta gradi, e così via, in una pirotecnica successione di figure diverse, mentre le voci, si diffondono senza la minima difficoltà nel grande spazio dell'Arena, strumenti duttili ai due cantanti per dialogare, recitare in musica evidenziando ogni parola, abbandonarsi al canto spiegato in una varietà di atteggiamenti che si traduce in varietà di movimenti scenici, e quindi vivacità di spettacolo. Questo godeva d'un efficace impianto scenico: una pedana rotonda al centro, il teatrino dei pagliacci di un lato e, in primo piano, un enorme sipario rosso che il vento ha mosso, energicamente, per tutta l'esecuzione. Così, sino alla fine il tempo, molto minaccioso, ha contribuito alla suggestione della serata: Verona era circondata da temporali tanto lontani da far sì che neppure una goccia piovesse sul pùbblico, ma abbastanza vicini perché il cielo si illuminasse quasi di continuo con la sagoma dei fulmini: il che per un'Aida sarebbe stato fuori luogo ma per Cavalleria e Pagliacci giungeva a pennello. Anche l'opera di Mascagni è riuscita bene, condotta con slancio da Ahronovitch e cantata con grande partecipazione, seppure con esiti musicalmente meno preziosi di quelli dei Pagliacci, dalla Dimitrova e da Johannsoon. Lo spettacolo conciliava, in un saggio equilibrio, le esigenze del gusto moderno con quelle spettacolari dell'Arena: è chiaro che il cuore di Lavia stava con la parte centrale del palcoscenico, una pedana rotonda tagliata in due, luogo ideale di una tragedia che la musica concentra con geniale e forse inconsapevole forza di sintesi: ma gli occhi del pubblico hanno apprezzato molto ciò che è avvenuto nel corridoio di spazio che la circondava: lo sfilare di cavalli, di carretti siciliani, e soprattutto le numerosissime comparse di una gigantesca processione che, in uno sfarzo di colori rossi e neri, gruppi statuari, croci, ceri, candelabri accesi, sfila durante il canto di Pasqua, attirandosi alla fine un fragoroso applauso a scena aperta, inutile fare gli schizzinosi: la spettacolarità è per l'Arena un imperativo categorico e la scena ad effetto ci vuole sempre, anche quando induce il regista ad evidenti forzature. L'importante è incastrarla con intelligenza come ha fatto Lavia, proponendola, l'altra sera, come un corpo estraneo che non intralciava il normale funzionamento di una regia altrimenti volta alla sottolineatura del dramma con intensità e con efficace forza teatrale. Paolo Gallarati

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