Dicevano «italiani buoni» poi la strage di Andrea Di Robilant

Dicevano «italiani buoni», poi la strage Dicevano «italiani buoni», poi la strage / miliziani si sono fatti scudo con donne e bambini IL RACCONTO DEI REDUCI ROMA. «Le donne hanno cominciato a gridare: "Italiani buoni, non sparate" e noi abbiamo abbassato le armi. Ma ci avevano ingannato e a quel punto i cecchini hanno cominciato a spararci contro». Nella penombra della sua stanza all'ospedale militare Celio il caporale Pasquale La Rocca è ancora intorpidito dai sedativi presi in seguito all'operazione all'occhio destro subita a Mogadiscio. Non ha molta voglia di parlare, chiede «un po' di'tranquillità». Ma poi rievoca con fatica l'agguato di venerdì scorso in cui sono caduti i suoi tre compagni. E dal suo racconto affiora ancora tutta l'amarezza per quelle grida scagliate a tradimento, un attimo prima dell'eccidio. Dice La Rocca: «Avevamo circondato la zona alle quattro di mattina. Gli uomini del Col Moschin sono andati avanti per disarmare i cecchini. E' stato a questo punto che numerose donne e bambini hanno cominciato a gettare pietre e bottiglie. Noi abbiamo subito risposto sparando in aria e per terra. Poi quelle grida delle donne. E noi abbiamo avuto un attimo di esitazione». A quel punto i cecchini hanno aperto il fuoco. «Hanno cominciato a sparare all'impazzata, dappertutto. Io mi trovavo su un'autoblindo e ho risposto al fuoco consumando un intero caricatore. Poi mi sono piegato per prenderne un secondo e quando mi sono rialzato sono stato colpito da una scheggia di bomba». Poco lontano all'autoblindo di La Rocca c'era il sottotenente Salvatore Scano, ferito all'emitorace destro durante l'agguato. Adesso è ricoverato anche lui all'ospedale Celio e ricorda così la manifestazione inscenata dalle donne e bambini del clan di Aidid: «Ci tiravano sassi e bottiglie ma all'improvviso sono spariti». Poi è riecheggiato quel grido, «Italiani buoni, non sparate», «e all'improvviso ci siamo visti piovere addosso pallottole e colpi di mortaio da tutte le parti. Non abbiamo risposto subito al fuoco, an¬ che perché eravamo consci del pericolo di colpire qualche civile». Il sottotenente Massimiliano Zaniolo era nella sua autoblindo assieme al sergente maggiore Stefano Paolicchi. «All'improvviso ho sentito esplodere colpi d'arma da fuoco intorno a me». Poi un dolore lancinante al braccio e alla mano. Ieri mattina i chirurghi del Celio gli hanno dovuto amputare due dita. Seduto nel suo letto al reparto ortopedico del Celio, Zaniolo riceve le visite del ministro della Difesa Fabbri e del Guardasigilli Conso e quasi sottovoce rievoca le fasi salienti della battaglia. E aggiunge: «A me è andata anche bene. Il sergente maggiore Paolicchi è rimasto ucciso: poteva capitare anche a me». Nel pomeriggio si è fatto portare in sedia a rotelle giù alla camera ardente per un ultimo saluto ai tre soldati più sfortunati di lui. Nella stanza di La Rocca, al reparto oculistica, il ministro della Difesa Fabbri, ricoverato anche lui al Celio per una broncopolmonite, ha incontrato i genitori del giovane caporale che probabilmente perderà l'uso dell'occhio de¬ stro. «Non vi preoccupate - ha detto dopo essersi informato sulle condizioni del soldato il Paese non si dimenticherà di voi». Prima di partire per la Somalia, Pasquale lavorava a Napoli come imbianchino assieme a suo padre Luigi. La signora Luisa è casalinga. «A mio figlio ho sempre dato un insegnamento cristiano. E' cresciuto con l'idea che bisogna fare qualcosa per gli altri. E così quando mi ha detto che andava in Somalia ho capito che ci andava anche per adempiere a quei doveri che gli sono stati insegnati da noi in famiglia». E quando il ministro è ormai lontano la signora La Rocca aggiunge: «Certo, adesso me lo ritrovo così, senza un occhio. Lui un lavoro ce l'aveva. Posso solo sperare che quello che dice il ministro sia vero». Andrea di Robilant La madre di Stefano Paolicchi, morto a Mogadiscio (FOTO ANSA]

Luoghi citati: Mogadiscio, Napoli, Roma, Somalia