«Mi pare che basti Possiamo andare»

«Mi pare che basti. Possiamo andare» «Mi pare che basti. Possiamo andare» Ore 2,30 del mattino, Mussolini incassa la sconfitta LA SEDUTA FATALE USSOLINI giunse all'ultima riunione del Gran Consiglio del fascismo - la numero 187, quella del 24-25 luglio di 50 anni fa - sicuro di uscire vincitore dalla «trappola di Palazzo Venezia» spalancata davanti a lui dai suoi stessi gerarchi, complice la monarchia. Forse si sentiva certo dell'appoggio del re; forse l'avevano convinto, al convegno di Feltre del 19 luglio, nelle ore in cui Roma veniva bombardata dagli aerei americani e Papa Pacelli accorreva fra le macerie fumanti di San Lorenzo, gli accenni di Hitler alle «armi segrete» come risolutive del conflitto. Sta di fatto che, alla vigilia della riunione di quel supremo organo di coordinamento fra partito fascista e governo, aveva confidato al generale Montagna il proprio scetticismo su una possibile «rivolta» dei gerarchi: «Credete a me. Sono tutta gente che vale poco: non hanno né coraggio, né intelligenza, né fede. Basterà qualche parola e rientreranno nei ranghi». Mai previsione tanto autorevole fu più errata. Quel Gran Consiglio, che cadeva due settimane dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia, non era un episodio di lotta politica come il Duce con iattanza mostrava di ritenere; era il drammatico modo in cui, all'invasione del sacro suolo della patria, alla protesta sociale esplosa a marzo negli scioperi di Torino e Milano, s'intrecciavano le sconfitte su tutti i fronti, lo spirito pubblico totalmente demoralizzato e una guerra che il Duce non sapeva vincere e da cui adesso non era neppure in grado di uscire. Mussolini aprì la fatale seduta a Palazzo Venezia - nella sala del Pappagallo, attigua al Salone del Mappamondo dove lavorava - alle 17,30 di sabato 24 luglio 1943, un giorno caldissimo, di cielo coperto, con qualche goccia di pioggia. Nell'aula afosa, a finestre spalancate, il Duce aveva di fronte i massimi esponenti del regime di cui almeno tre - suo genero Galeazzo Ciano, il presidente della Camera Dino Grandi e l'ex ministro Giuseppe i Bottai, intenzionati ad abbandona¬ re la barca che stava affondando s'erano da tempo schierati segretamente dalla parte del re e dei vertici militari: Vittorio Emanuele III, deciso a strappare la monarchia dal baratro in cui lui stesso l'aveva trascinata accettando supinamente il fascismo, progettava di rompere l'alleanza con Hitler e abbandonare la guerra se un organo come il Gran Consiglio gliene avesse offerto lo strumento costituzionale mediante un voto. E proprio Grandi, in apertura di seduta, presentò quell'ordine del giorno - che aveva già raccolto 18 adesioni fra i 28 membri del Gran Consiglio - su cui si accese il dibattito decisivo che toccò anche toni minacciosi (non per nulla Grandi si era portato due bombe a mano nella tasca della sahariana nera, la divisa estiva dei gerarchi). Per il vero erano in ballo altri due ordini del giorno, l'uno voluto da Mussolini e presentato dal segretario del partito, Scorza; l'altro di Farinacci. Ma solo quello di Grandi svelava a tutti il vero scopo della riunione perché invitava il Duce a pregare il re «affinché voglia, per l'onore e la salvezza della patria, assumere con l'effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto, quelle supreme iniziative di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono». In termini meno reticenti, poiché il re aveva il potere di dichiarare la guerra e di fare la pace, una delle «supreme iniziative» era proprio quest'ultima. L'aspra battaglia verbale, interrotta solo a mezzanotte da uno spuntino con panini e aranciata, durò quasi nove ore e si concluse alle 2,30 del mattino di domenica 25. Dopo Grandi, Scorza illustrò il suo ordine del giorno in cui auspicava generiche «riforme degli organi costituzionali e dei comandi militari»; Farinacci rivendicò a sé il ruolo di Cassandra inascoltata. Parlarono un po' tutti: Ciano per accusare i tedeschi di slealtà, Bottai per rinfacciare al Duce la sua cieca dittatura, De Bono per deplorare i molti errori militari. Musso¬ lini, in preda a un attacco di gastrite, una mano stretta sullo stomaco, l'altra a pararsi gli occhi dalle luci della lampada, se ne uscì prima in una frase misteriosa («Io ho una chiave per risolvere in maniera conveniente questa crisi. Ma non vi dirò quale»), poi attaccò l'ordine del giorno Grandi che - disse secco secco - «mi pone problemi molto gravi di dignità personale. Se il re lo accetta significa che io vengo decapitato. E' meglio parlarci chiaro. Ho ormai 60 anni e so che cosa vo¬ gliono dire queste cose. Se poi domani il re a cui lo portassi mi dovesse rinnovare la fiducia quale sarebbe la posizione di voi, signori, di fronte al sovrano, di fronte al Paese, di fronte al partito, di fronte a me personalmente?». Nel gelido silenzio sceso sull'aula il Duce, probabilmente sicuro dell'effetto di quell'implicita minaccia, dichiarò chiuso il dibattito proponendo di votare i tre documenti secondo l'ordine di presentazione. Ma il primo, quello di Grandi, fu subito approvato con 19 sì, 8 no e un astenuto. «Mi pare che basti disse Mussolini -. Possiamo andare. Voi avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta». E Scorza, a mezza voce, ordinò: «Saluto al Duce!». «Vi dispenso», replicò Mussolini voltando le spalle e rientrando nello studio mentre il presidente del Tribunale Speciale, Tringali-Casanova, apostrofava profeticamente Ciano ad altissima voce: «Caro Galeazzo, per questo molto sangue, anche fraterno, dovrà scorrere e Dio non voglia che ricada sulla tua testa». Era già sorta l'alba di domenica quando Mussolini - sull'Alfa Romeo presidenziale - rientrò a Villa Torlonia dove la moglie Rachele lo aveva atteso ascoltando la radio. Alla stessa ora Grandi informava il ministro della Real Casa, Acquarone, dell'esito del voto al Gran Consiglio sicché verso le 8 il re poteva decidere di esautorare il Duce sostituendolo con Badoglio (ma Mussolini - confidò il sovrano ad Acquarone - «non è da buttare; fra due anni sarà di nuovo un ottimo presidente del Consiglio»). L'idea di Vittorio Emanuele III era tuttavia quella di agire solo l'indomani, lunedì 26, quando il Duce sarebbe andato da lui al Quirinale per la consueta firma. Fu Mussolini che, inconsapevolmente, mandò all'aria il piano: ansioso di spiegare al sovrano che quel voto non «impegnava nessuno», data la funzione esclusivamente consultiva del Gran Consiglio, alle 11 fece chiedere un'udienza speciale per lo stesso pomeriggio e il re, costretto a improvvisare, gliela fissò per le 17 a Villa Savoia, sua residenza, non al Quirinale. Nell'attesa il Duce pregò Scorza di sollecitare per i prossimi giorni un incontro con il Papa, telefonò alla Petacci consigliandole di «rimanere al sicuro», si recò a visitare il Tiburtino devastato dalla bomba, tornò a casa per la colazione alle 14,30 e - senza badare troppo a Rachele che gli suggeriva di non andare a Villa Savoia perché «il re fa il re e se gli conviene ti getta a mare» - si presentò puntuale all'udienza. Il colloquio col sovrano, nel salotto al pianterreno, durò 25 minuti. Vittorio Emanuele III cominciò dicendo che il voto del Gran Consiglio era «tremendo», rispecchiava «la volontà del Paese» e il Duce era l'«uomo più odiato d'Italia». Aggiunse che gli alpini cantavano una canzone in cui dicevano di non voler più fare la guerra per Mussolini (e ne ripetè alcune strofe in piemontese). Bisognava cambiare e così aveva disposto di sosti- tuirlo con Badoglio. L'aiutante Puntoni, cui il re aveva dato l'incarico di rimanere dietro una delle porte del salotto, udì per due volte la voce lamentosa del Duce ripetere: «Allora, è tutto finito?»; e poi: «Che ne sarà di me, della mia famiglia?». Il re lo rassicurò, gliene diede la parola e lo congedò. Ma nel giardino di Villa Savoia l'Alfa Romeo presidenziale non c'era più; il suo posto l'aveva preso un'autoambulanza della Croce Rossa sulla quale il capitano dei carabinieri Vigneri fece salire il Duce, quasi spingendolo: «Eccellenza, è per la vostra sicurezza». «Ma non c'è alcun bisogno», cercò di schermirsi Mussolini. L'ambulanza scattò verso la caserma carabinieri «Podgora» di Trastevere dove il Duce (che Vigneri descriverà «abbattuto, silenzioso; non alzava gli occhi da terra») giunse alle 18,30. Di là, un'ora più tardi, venne trasferito alla caserma allievi ufficiali carabinieri di via Legnano e questo «per motivi di sicurezza» pare suggeriti dallo stesso re (il sovrano, pochi giorni prima, era venuto a sapere di «altissimi esponenti militari» decisi a uccidere Mussolini e del resto Umberto II dirà più tardi che «la morte del Duce era un'idea fissa di Badoglio»), Quella sera di domenica la radio trasmetteva musica leggera con l'orchestra Angelini; alle 22,47 il programma fu interrotto di colpo e lo speaker Arista lesse il comunicato del re con l'annuncio delle «dimissioni del cavalier Benito Mussolini», l'incarico a Badoglio e quella infelice frase «la guerra continua» che tanto sangue doveva costare all'Italia. Dalla Germania, silenzio. Hitler, con tutte le spie che aveva a Roma a cominciare da Farinacci e Buffarini-Guidi, non seppe dell'arresto di Mussolini che l'indomani alle 12,30 attraverso un dispaccio della Reuter. Cominciavano così i quarantacinque giorni di Badoglio che non furono né la fine del fascismo né la fine della guerra. Giuseppe Mayda GDOMENICA 25 LUGLIO, ore 19,30 Mussolini è trasferito per maggior sicurezza alla caserma allievi ufficiali dei carabinieri in via Legnano. Qui rimane tutto il lunedi 26 e martedì 27 luglio. MARTEDÌ 27 LUGLIO, ore 22 Mussolini viene caricato su un'auto civile diretta al Sud. Passa davanti all'ospedale di Santo Spirito, imbocca la strada per Albano, passa per Cisterna e arriva a Gaeta. Al molo Ciano lo attende la corvetta «Persetene» che parte subito per Ponza. ©DOMENICA 25 LUGLIO, ore 3 In auto da Palazzo Venezia a Villa Torlonia passando davanti al Quirinale O~~DÒMENICA25LUGLI0, oreT2 In auto da Palazzo Venezia al Tiburtino bombardato MERCOLEDÌ 28 LUGLIO, ore 13 | Mussolini arriva a Ponza: è la sua prima prigione. I MOVIMENTI DI MUSSOLINI NEI GIORNI DELLA CADUTA PER CASTEL GANDOLFO ALBANO CISTERNA Dino Grandi con la moglie: nella seduta del Gran Consiglio del fascismo che defenestrò il duce, aveva in tasca due bombe a mano