DONNA, ti odio
DONNA, i di DONNA, i di ti odio Escono wi dizionario e un'antologia dedicati alla misoginia del secolo scorso Da Tolstoj a ProudJion, da Moreau a Lombroso gli intellettuali divisi tra fascino e paura mili a tizzoni ardenti e gioielli capaci di lacerare la carne di un incauto amante, Félicien Rops in Pornokratès immortalava una prosperosa bruna, nuda ma feticisticamente bendata e calzata, che cammina facendosi tirare da un maiale tenuto al guinzaglio. Cosa si nascondeva dietro tanta ostentazione di corpi femminili, opulenti o serpentini, imbrigliati da catene scintillanti o prorompenti da calze nere e giarrettiere? La risposta la troviamo in Lafemme qu'ils disent fatale (La donna che dicono fatale), appena uscito da Grasset, in cui Mireille Dottin-Orsini setaccia la letteratura dell'epoca. Più che la donna-madre metafora della natura, l'ossessione con cui si raccontava e si interrogava «il femminile», secondo l'autrice riguardava un idolo tanto potente per la sua bellezza quanto ingannevole e distruttivo. Al culto Lev Tolstoj: «La bruttez. della nostra vita deriva dal potere che hanno le donne...» corrispondeva un groviglio di disprezzo, paura e repulsione, di messe in guardia e soluzioni non certo edificanti: insomma, una terribile misoginia. «La donna possiede l'uomo, lo domina e lo tortura», tuonava Octave Mirbeau nel 1892 e Strindberg in un articolo sull'inferiorità delle donne così liquidava le loro rivendicazioni: «La pretesa della donna di. essere uguale all'uomo è soltanto un'esigenza dispotica. Vuole abbassarlo fino a lei, perché non può innalzarsi al suo livello». Tolstoj poi, in La questione sessuale, scriveva: «La bruttezza e l'insania della nostra vita derivano dal potere che hanno le donne... L'uomo deve emanciparsi dalla donna». Ma c'è di peggio. L'ossessione di quell'«alambicco di merda e urina» che Edmond de Goncourt intravedeva dietro la rosea car¬ ne delle fanciulle, seguitava a esprimersi in epiteti quali vipera, vacca, carogna, cagna, vampiro, o in numerose varianti di putredine e immondizia con cui la Lulu di Wedekind era designata dai suoi amanti. Se poi la donna fatale era fulcro di perversioni inenarrabili, mentre l'omosessualità veniva accettata come manifestazione amorosa tra due esseri «spirituali», la Méphistophéla di Catulle Mendès che metteva in scena un incesto saffico ottenuto con la violenza etichettava il lesbismo come «orgoglio luciferino» votato alla distruzione del mondo. E la famelica orchessa, l'insaziabile ninfomane di tanti romanzi d'appendice e non, o la vipera assassina fu volentieri identificata con la Bella Ebrea, tra l'altro presenza d'obbligo nei bordelli a causa dell'appetito erotico che le si attribuiva, o con la fanciulla portata alla perdizione da un «banchiere ebreo». Come la Nana del dreyfusardo Zola che nella sua alcova era perennemente circondata da «una muta» di uomini «al galoppo». La misoginia letteraria si venava di antisemitismo anticapitalista e si divideva sull'interpretazione dell'erotismo femminile, confortata dalle tesi «scientifiche» di Lombroso e di Otto Weininger. Il primo, basandosi su statistiche e «testimonianze d'ogni tipo» in La donna criminale e laprostituta aveva teorizzato l'inferiorità della donna in ogni campo e la sua assoluta «freddezza sessuale». L'altro, in Sesso e carattere, la vedeva invece tutta proiettata sul sesso, «essendo il coito in cui veniva dominata dal maschio l'idea centrale, il desiderio perenne, violento, della sua esistenza». E a lei associava l'ebreo, «più lascivo e lussurioso» ma, guarda caso, «meno potente dell'ariano». La soluzione? «Se la femminilità è immoralità - scriveva - la SCRITTRICI ALLO
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