«La mamma gridò: i cetnici E niente fu più come prima»

Usavano donne e bimbi come scudi umani per proteggersi dagli spari. Poi ordinarono a un ragazzo di pugnalare il padre Scene d'orrore in un paese della Bosnia: «Incendiarono la moschea con gli uomini dentro» «La mamma gridò: i cetnici E niente fu più come prima» IL DIARIO DI UNA ADOLESCENTE SZAGABRIA E qualcuno mi chiedesse cosa penso del futuro, risponderei che non lo so. Potrei immaginarlo come vorrei che fosse. Ma non ci riesco. E' troppo difficile e io sono troppo triste. L'unica cosa che posso pensare e sperare è questa: che ciò che accade in Bosnia non avvenga mai più in nessun altro luogo del mondo. Comunque, non cerco vendetta. Ma vorrei qualche risposta dai nostri vicini, i cetnici. Perché ci hanno fatto questo? Non sono sicura di riuscire a descrivere le sofferenze del mio popolo - i bosniaci - ma ci proverò. Avevo appena cominciato il mio primo anno di scuola media. Ero felice. Avevo tanti amici. Ma presto tutto finì, svanendo con la rapidità di un sogno. Un giorno, a maggio, la mia scuola chiuse in anticipo: erano arrivati i soldati e si misero a erigere delle barricate. Il mattino dopo, mio zio mi disse che si sparava nei villaggi vicini. Cominciammo a capire, un pò' alla volta, che era cominciata la guerra. Ci dissero di abbandonare il paese. Ognuno di noi avrebbe dovuto fare una valigia con l'essenziale e stare pronto. Andammo da nostro cugino che aveva un camion. Ci portò in un bosco dove pensavamo di nasconderci. Gli uomini si armarono di pistole e decisero di sorvegliare il paese. Ce ne andammo come se fossimo stati dei ladri, strisciando di casa in casa. Verso mezzanotte sentimmo degli spari. Sembravano arrivare da Horvacani, un villaggio vicino. Tutto assomigliava a un film. Non appena albeggiò, ci dirigemmo verso casa. Cominciavo a pensare che ciò che era successo nella notte fosse stato solo un brutto sogno. Poi vidi Horvacani. Non c'era più niente, solo rovine. Camminammo lentamente, sporchi e spaventati. Fortunatamente, a' casa c'era ancora dell'acqua calda e così feci il bagno. Ma prima che finissi, mia madre bussò alla porta e mi disse di uscire. Urlava: «I cetnici!». Mi sentii gelare il sangue. Prendemmo in fretta e furia le valigie e corremmo da nostro cugino, con la speranza di poter fuggire un'altra volta. Ci portò a Plicka. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo, fino a quando un vicino ci spiegò. I cetnici - pugnali alla mano - erano penetrati nel nostro villaggio. Erano «Aquile Bianche», dei killer. Qualcuno disse che avevano l'ordine di uccidere tutto ciò che si muovesse. Tornammo a casa il giorno successivo, ma consapevoli che avremmo sempre dovuto essere pronti a scappare un'altra volta. Andai allora ad aiutare mia nonna a seminare il grano. Poi, all'improvviso, vidi un cetnico. Eravamo terribilmente nervosi, ma continuammo a lavorare. Cinque minuti dopo, ci spararono. Scattammo a correre, piegandoci in due e, in certi momenti, strisciando per terra. Ci rifugiammo tra i cespugli e da lì guardammo il nostro paese. Una a una, le case venivano incendiate. Scesa la notte, tornammo e allora vedemmo ciò che era successo. La nostra casa era ancora in piedi, ma quella di mio zio, il fienile e la cuccia del cane erano in fiamme. Il mattino dopo, arrivò un mio amico con la famiglia da Vrbanjci. Ci spiegò che i cetnici aveva- no torturato e ucciso una quarantina di uomini e costretto alla fuga donne e bambini. Ogni notte qualcuno scompariva e in qualche famiglia si piangeva. Ci sentimmo perduti. Non potevamo neanche esprimere il nostro orrore quando loro c'era¬ no: erano quei terribili, odiati, disgustosi cetnici, assetati del nostro sangue, impegnati a violentare le nostre donne e a seminare il panico tra i nostri bambini. Eravamo esauriti. Cominciammo a pensare al suicidio. I cetnici arrivavano nel nostro paese ogni giorno per razziare auto, trattori e altri macchinari. Qualunque cosa volessero se la prendevano. Dovevamo sempre accoglierli festosamente. Una notte, sentii dei rumori. Fecero irruzione a casa nostra. Erano cinque o sei. Quando videro la tv, esclamarono: «Eccola qui», e se la presero. Di lì a poco, tornarono perché si erano dimenticati il telecomando. Di lì a poco, venimmo a sapere che i cetnici avevano tentato di fare irruzione a Vecici. Avevano usato donne e bambini come scudi umani per proteggersi dal fuoco nemico. Come se non bastasse, diedero un coltello a un ragazzo di 16 anni e gli ordinarono di pugnalare il padre. Quando il ragazzo rifiutò, tagliarono la gola del padre davanti ai suoi occhi e lo assassinarono. Tanti altri, come mio papà, se ne stavano nascosti. Veniva a casa solo per mangiare. Una sera la mamma mi disse che a mio padre non era rimasto più cibo. Di prima mattina, preparò alcune provviste in modo che io e mio cugino gliele portassimo. Al ritorno, improvvisamente, ci imbattemmo in una trentina di cetnici, armati e con mute di cani. La paura mi raggelò. Presero mio cugino. Era terrorizzato e piangeva. Io tornai al villaggio. Volevo piangere. La madre di mio cugino uscì fuori e mi chiese dove fosse. Da quel giorno, i nostri uomini non fecero più ritorno. Poi, un giorno, comparvero di nuovo i cetnici. Perquisirono tut¬ te le case. Sembravano lupi famelici. Venimmo a sapere che avevano violentato una donna, parente di mia zia. Le rapirono anche il marito. E le rubarono un vitello. Sconvolta, andò al quartier generale a protestare. Il mattino dopo, si trovò due soldati in casa che la picchiarono. Un giorno pranzavamo in un campo, di fronte a casa. Fu allora che ci accorgemmo che i cetnici stavano sequestrando tutti. Fuggimmo. Eravamo quasi al sicuro, quando sentimmo gridare: «Fermatevi o spariamo!». Ci costrinsero a raggiungere la nostra moschea. Alle donne e ai bambini fu ordinato di stare all'ombra. Gli uomini, invece, al sole. I cetnici che conoscevamo tutti, perché erano i nostri vicini - li circondarono, con le armi puntate. Osservavo i loro ultimi minuti. Molti erano stati picchiati a sangue. I cetnici li spinsero a forza dentro la moschea e appiccarono il fuoco. Chiusero le porte in modo che non ci fossero vie d'uscita. I cetnici ridevano e urlavano: «Ecco che fine fa una moschea!». Amira Halilovic Copyright «The Guardian» e per l'Italia «La Stampa» Usavano donne e bimbi come scudi umani per proteggersi dagli spari. Poi ordinarono a un ragazzo di pugnalare il padre Amira Halilovic, la ragazza che ha scritto un diario sugli orrori della guerra in Bosnia A destra: carri armati serbi presidiano un villaggio. Sopra: profughi bosniaci

Persone citate: Amira Halilovic

Luoghi citati: Italia