Levi, da Eboli a Palazzo Venezia

Levi, da Eboli a Palazzo Venezia Una rassegna «ideologica»: la pittura neorealista come scelta morale e politica Levi, da Eboli a Palazzo Venezia / carusi di Lucania nelle stanze del Duce "7*1 ROMA I ' ARLO Levi a Palazzo VeI ne zia, fino al 18 luglio, 1 i targato Cgil, nel nome di I Giuseppe Di Vittorio; ritratto nel 1952 questi è una roccia, pelle terragna, ombre violacee, un uliveto fosco sotto il cielo viola ardesia alle spalle. Si tratta di una mostra dichiaratamente ideologica, una sacrosanta affermazione di valori, prima pittorici, poi umani, in mezzo allo sfascio, agli avvisi di garanzia, alle risse tribali, alle braccia levate sotto il balcone del Palazzo. L'ultima sala della mostra vive di un'idea emozionante. E' la sala «del mappamondo», lo studio ufficiale di Mussolini in cui si apre quel balcone. E' occupata, sulla grande parete di fronte al balcone, soltanto dai 19 metri di base dei sei pannelli di Lucania, la severa densa meditazione pittorica sugli uomini, sulle pietre, sulla cultura contadina dei «Sassi» di Matera. Con gesto e modi tipici di Levi, fu proposta come una sfida, ma non urlata - come avrebbe fatto un Guttuso - in mezzo a Italia '61, la faraonica celebrazione dell'Italia del «boom» e dell'egemonia democristiana, appena uscita dall'esperienza Tambroni. Altri tempi. Levi, l'intellettuale gramsciano-gobettiano autentico - che sapeva sentire, capire e vivere senza contraddizioni la vita sia dell'alta e raffinata società e cultura ebraica da Torino alla Riviera Ligure, da Roma a Londra a Parigi, e quella dei «carusi» lucani - volle con quell'opera ricordare le radici recise di un terzo mondo di casa nostra, per cui i cancelli della Fiat si stavano spalancando. Ma voleva anche ricordare, con una sorta di pittura-scrittura, di realismo didascalico elevato a immaginario, l'antichissima dignità di quelle radici, addirittura preromane. Ciò spiega la scelta, per quell'enorme manifesto neorealista, di un linguaggio e di forme che potremmo definire una rivisitazione di Novecento, non lontane da un Soffici, ma nude, concrete, senza intenzione o illusione di riproporre i primitivi del '400 o i Macchiaioli. Per la stessa ragione, di partecipata memoria umana, di incrocio profondo e intimo di quelle radici con le sue proprie, di pittore, la figura in basso a destra dell'enorme quadro mi sembra che riproponga, nella sua dura compatta determinazione d'immagine, la stessa compattezza della figura del fratello nel primo capolavoro giovanile, Fratello e sorella, dipinto quasi quarantanni prima a tempera a cera su tavola, con la tecnica «classica» amata dal maestro Casorati quanto, in quegli Anni 20, dal «pictor optimus» De Chirico. Il punto è che Carlo Levi, uomo e intellettuale profondamente Ubero e di forte umanità nel suo intimo antifascismo, aveva troppe carte in regola nel ventennio per «vergognarsi» poi dell'arte del Novecento nel suo complesso e per avallare il mito dei gruppi giovanili agli inizi degli Anni 30 - nel suo caso, i Sei di Torino - come portatori di una pittura automaticamente antifascista in quanto aperta a modelli internazionali. Il Levi degl'inizi, ottimamente documentato nelle due sale iniziali con le immagini familiari (splendide, 1930, La madre e Le due signore, di cui una è sempre la madre) e lungo gli Anni 20, è un giovane medico della borghesia ebraica pervicacemente teso ad allontanare ogni sospetto di dilettantismo sottoponendosi alla dura disciplina di mestiere della scuola di Casorati: ma teso anche, a partire dal precoce, «ingenuo» Ritratto di Natalino Sapegno del 1922-23, a oggettivare la realtà fino all'estremo limite dei valori tattili, dal nudino di Arcadia, ammesso alla Biennale del '24, a Fratello e sorella, che raggiunge e varca i limiti internazionali della «Nuova Oggettività». Con lui, la Torino casoratiana stringe la mano alla Milano del primo gruppo di Novecento - ad esempio Dudreville - e persino alla Roma di Guidi {Candida, 1926). Poi, il tuffo nella libertà di Parigi, in tutti i sensi: i Ritratti di Turati e di Nello Rosselli sono del '29 (quello di Carlo Rosselli è del '32, Garosa, e Chiaromonte del '34). Il Nello Rosselli è già marcato dal più fantastico e fantomatico espressionismo pittorico che avesse allora corso in Italia accanto a quello di Scipione a Roma: versione nazionalcattolica, con travaglio barocco dei sensi, quest'ultima, versione internazionale ebraica, con altro e più sottile tipo di travagli, quella di Levi, protratta in mostra fino al Signore azzurro seduto del 1931. Azzurriviola aciduli, gialli citrini, arancioni sierosi: corpi come fiamme gelide, lontani echi del Greco per una sorta di protoesistenzialismo molto intellettuale ma anche molto intriso di vita: Moravia è del 1932, più tardi sarà ritratto anche Pavese. Con una proposta di grande significato, dalla sala espressionista ed esistenziale, stupenda di pittura, si passa di colpo a quella destinata alle cose e ai ragazzi, alle madri e ai calanchi dell'anno di confino 1935-36 in Basilicata. Pittura di materia e di terra, arida, di luce calcinata; pittura «morale». E', come scriverà per sé molti anni dopo Amendola (sarà ritratto nel '66), una scelta di vita, definitiva; anche di vita pittorica. Le serpentine esistenziali di fantastico cromatismo del tempo dei Sei diventano impasto e concretezza di fatica quotidiana. La stessa monumentale concretezza di vita naturale, e nel contempo la drammaticità espressiva di quella vita, caratterizza i grandi, tardi tronchi di Carrubo alternati nella penultima sala ad altrettanto drammatici viluppi di nudi maschili e femminili lungo gli Anni 30, tipici di un torinese compagno di Soldati nella Roma di Fausto Pirandello e di Corrado Cagli. Marco Rosei Di Vittorio ritratto da Levi nel '52; a fianco: autoritratto del pittore Nella immagine grande a destra «Fratello e sorella», dipinto nel '25