Le calde notti del cattivo meccanico di Massimo Mila

«Sempre alla sera la moglie lo aspettava libidinosa Le calde notti del cattivo meccanico «Sempre alla sera la moglie lo aspettava libidinosa LI parve di vivere, nei primi giorni, della vita f ■ stessa della grande città, lY quella vita nuova e for _5ZJ midabile che aveva so guato tanto paurosamente negli anni grigi che voleva essere un poeta. A velocità febbrile, per le strade dure e nitide delle colline e delle pianure, sull'automobile carica di pietroni, tutta ruote e motore, mezza ancora da costruire: bella della stessa bellezza che avevano gli orli della città sparsi di prati e di case nuove, isolate: bella come tutte le opere in azione. Passava tra quei segni di mondo in cammino e s'ubriacava di vento e di velocità, con tutto lo spirito teso a seguire il pulsare ritmico della nuova creatura che aveva sotto i pugni. A quell'orgia violenta e sanissima gli pareva di esser finalmente libero da tutti i dubbi e le vigliaccherie di un tempo. Passava come un ciclone, una folata di vento e la natura stessa non gli pareva più estranea. Dalle vette delle colline, dove appariva un istante, per sprofondarsi giù fulmineo, la grande città fumante nella pianura, la sua corona di fabbriche posta come una difesa, i monti lontani e il cielo, l'erba che rabbrividiva intorno, tutto gli si fondeva nello spirito come una cosa sola, una sola immensa elevazione. Il pericolo non lo spaventava più. E, al ritorno, nella tettoia quieta, immobile, pedestre, gli pareva di soffrire a staccarsi dalla nuova compagna che si era fatta. Scendeva con tutti i nervi e il cervello intronati ancora dal rimbombo ritmico del motore e non trovava pace finché non risaliva su un'altra macchina a scattar via con lena rinnovata. Intanto, potè viver meglio. Un giorno fece, con una macchina più difficile del solito, una scorribanda fino al paese dov'era nato. A rientrare tra quelle colline dove ogni tratto era il ricordo di uno struggimento della sua prima giovinezza, lo riprese la febbre antica, ingigantita e purificata dalla scuola di libertà e di forza che aveva durato. E sentì come un terrore alla coscienza improvvisa e precisa che, da quando aveva abbando¬ nato la sua vita malata, più nulla dell'esperienza nuova gli aveva acceso di tormento l'anima per rivelarsi in arte. «Mai, mai, sarò un poeta!» gemè ancora dentro di sé. Ma lo prese quella vita rude. Tornò ancora tra quelle colline, dal dialetto aspro come le loro pietre, e vi scoprì tanto fàscino, che mai nella sua città avrebbe sognato. E tanto fece che sposò una di quelle ragazze della campagna, gagliarde come un uomo, ma affinate da un che di moderno, che le avvicinava al suo spirito. La condusse a abitare in una casa vicino alla sua fabbrica. La godè freneticamente. Il corpo aspro, quasi muscoloso, e la parola semplice, la dedizione completa di lei, gli fecero quasi credere di aver perduto finalmente ogni rimpianto di quel tempo che si aggirava stanco innanzi alla vita incomprensibile. E tornò alle sue macchine. Ormai le aveva tanto speri¬ mentate e amate che faceva un corpo solo con esse (...). E continuava, continuava a provar motori macchinalmente. Non viveva più che per essi e per il corpo della sua donna. Aveva alcuni colleghi collaudatori che, come lui, facevano il mestiere di fuggir via tutti i giorni sulle belle macchine vergini. Ma, al ritorno, a vederseli accanto, a sentirli parlare di accensioni, di magneti, di velocità, brutalmente, come di tutte le altre cose della vita, s'irritava. Essi gli mostravano ciò che anche lui doveva diventare. Eran uomini rozzi e formidabili, dagli occhi bassi da lottatore, che il lavoro aveva domato e plasmato secondo se stesso, e vivevan nella vita stupidamente, come le macchine. A lui ne venne un grande disgusto. E poi, la casa cominciò a soffocarlo. La sua donna perse ai suoi occhi il fàscino della comune origine in un paese solitario, consacrato dalla sua nascita, tra le grandi colline bruciate dal sole, alte a dominare vallate che dicevano di secoli di quella vita. Se la vide gretta, come gli era gretta e insoffribile la casa assettata per la famiglia; la sentì nei discorsi, nelle idee, nella vita, troppo simile ai suoi colleghi, tranne certe pretese a un'eleganza, a una vita superiore che glie la facevano ancor più goffa e irritante. Quel suo fàscino di rudezza era ormai tanto lontano. E finì che quel corpo robusto di giovane non lo accontentò più, così, naturalmente, come si offriva, ed egli volle provare con lei lascivie più raffinate. La donna ci stette volentieri. E così, nelle lunghe corse folli e solitarie, egli ebbe un avvilimento da tanto tempo inconsueto al suo spirito, lo stesso che, quand'era più giovane, gli dava l'intontimento febbrile della masturbazione. Si sentiva imbestiare su quel corpo. E quegli uomini bruti gli ripugnavano sempre più. Un giorno, mentr'era al volante, s'accorse di annoiarsi. Nell'alito della velocità perse la divina esaltazione dei primi mesi e risentì una nostalgia di un ardore dell'anima che gli riempisse il tempo interminabile. E sempre alla sera la moglie lo aspettava libidinosa come una puttana. Egli si compiacque di fiaccarsi le forze in quelle lascivie, come un tempo si compiaceva di consumarsi nello struggimento della sua anima. E risaliva al mattino sulle macchine coll'atteggiamento torvo di quand'era un poeta. Il suo spirito non partecipava più per nulla al collaudo, egli era una cosa sola col motore, i suoi muscoli non fallivano, l'anima sonnecchiava, inutile. E riebbe allora il terrore di sentirsi assorbire, di diventare una macchina, come aveva veduto gli operai dei magli e vedeva ora i colleghi. Ormai non si sentiva più che un'intelligenza meccanica, condannata a governare una forza un po' più cieca. E la notte finiva di togliergli quel po' di anima che ancor gli restava. Un giorno, in una corsa folle e precisa giù da una collina, si vide dinanzi un passante, non fece in tempo, l'altro non si mosse, capì appena e già era travolto, colla testa fiaccata. Dovè fermare. C'era gente. Ma gli tolsero ogni responsabilità. Non ebbe neppure da scolparsi. Potè proseguire subito. Venne giù alla stessa velocità e lo inorridiva il fatto di non provare alcun rimorso. Nulla, come schiacciare un cane. Quel che poteva provare la sua macchina, provava anche lui. Null'altro. Raccontò il fatto ai colleghi ed essi raccontarono ognuno i loro investimenti con grande indifferenza. Ed egli si accorse chiaramente di diventare, di essere già diventato, una cosa sola con essi e colle loro macchine. Un tempo il pensiero di diventare un vecchio pazzo di poesia, un libro a tutti i costi lo aveva esasperato fino al pensiero del suicidio, ma ora sentiva in quell'abbrutimento progressivo spegnersi fin la forza di ribellione. L'unico sfogo lo trovò la notte con la moglie in un'orgia di piacere disperato. Al mattino fuggì quasi nascostamente e riprese il suo mestiere con un'insofferenza bruciante. Corse a velocità frenetiche. Poi tornò e fu la stessa notte. Poi il giorno ancor più pazzesco. Poi altre notti, altri giorni, alternando il letto e il motore senza quasi veder più differenze. E il pensiero antico gli rilampeggiava. Rivisse a scatti, come poteva ormai, le atroci esitazioni esasperanti. Un giorno si risolse. Fu una corsa sola. Sentì l'ultima volta sotto di sé, l'antica divina carezza delle strade magnetiche. Brani di sogni gli bruciavano nel cuore a quelle frustate fulminee di vento. Sboccò tra le sue colline. Corse la strada bianca lunga fin presso la casa dov'era nato e si era sognato poeta. Salì, rombando, tra i ritani alberati e profondi della collina. Poi volse e diede tutta la forza al motore. Si scaraventò giù per un balzo sulle pietre nude. Quando lo ripescarono, nel petto sfondato dalla ruota del volante, stava infitta l'antenna come una lancia. Cesare Pavese Sta per uscire da Einaudi, nella collana «Nuovi Coralli», a cura di Maria Rosa Masoero, una raccolta di scritti giovanili di Cesare Pavese intitolata Lotte di' giovani e altri racconti (1925-1930). Pubblichiamo una parte del racconto // cattivo meccanico. Massimo Mila in una foto giovanile: negli Anni 20 lesse e apprezzò «Il cattivo meccanico». A sinistra un'immagine della Fiat nel 76

Persone citate: Cesare Pavese, Einaudi, Maria Rosa Masoero, Potè