Dai missili dell'odiata America un po' di ossigeno al dittatore di Igor Man

Dai missili dell'odiata America un po' di ossigeno al dittatore Dai missili dell'odiata America un po' di ossigeno al dittatore LA VENDETTA DI WASHINGTON AL sicuro in uno dei suoi 54 bunker a prova d'atomica (costruiti assemblando il meglio della tecnologia occidentale da imprese Usa ed europee); confortato dall'aria condizionata; soccorso dall'informatica, informato dalla Cnn, Saddam Hussein si ingozza di notizie che, una volta ancora, lo ripropongono sulla ribalta internazionale. Foster Dulles che odiava Nasser, e lo temeva, non si stancava di raccomandare ai portavoce del dipartimento di Stato di parlare «comunque» di lui. E' un espediente efficace, sosteneva, per tenerlo buono: se la grande stampa lo ignorasse la sua vanità ne soffrirebbe e il raìss pur di «apparire» «sarebbe capace di nazionalizzare la luna». Francamente non so cosa potrebbe fare Saddam per non essere trascurato dai mass media, stretto com'è in una vera e propria camicia di forza: tra zone protette e altre limitazioni, fra divieti di volo ed embargo, il suo potere effettivo è minimo; regna su tutto l'Iraq ma ne governa soltanto una porzione. Ancora una volta, dunque, nel segno del paradosso insediatosi in Medio Oriente con la guerra del Golfo, è stato il nemico, l'America, a ridare lustro all'appannato blasone d'un dittatorebullo in debito d'ossigeno. Delle grandi città sfrante dalla guerra, soltanto Baghdad è stata ricostruita e ad un prezzo spaventoso in termini di valuta estera e di vite umane (gli incidenti sul lavoro non sono quantificabili). Negli ospedali continuano a scarseggiare i medicinali di base (antibiotici etc); la mortalità infantile ha raggiunto un livello asiatico; la vita media è caduta dai 64 anni ai 54; dal postindustriale l'Iraq è passato, di colpo, allo stato agricolo ma con una agricoltura da rifondare. Ciò nonostante il dittatore avrebbe turpemente ordito un attentato alla vita del prima d'ora presidente degli Stati Uniti George Bush. Attentato che grazie al Kuwait, la Cia ha ufficialmente sventato proprio alla vigilia della visita, il 14 di aprile, di Bush a Kuwait City: il giovine Billy era già un Presidente in difficoltà, il vecchio George oramai un ex colmo di rimpianti. A Baghdad si vuole che l'obiettivo dei missili americani non fosse tanto la sede dei servizi segreti quanto lui, Saddam, che «doveva» trovarsi in quegli uffici «in quel giorno e in quel momento». Gli americani - e questo lo dicono anche al Cairo -, erano sicuri al 99 per cento che con un colpo solo avrebbero centrato due obiettivi: lui, il fosco raìss assirobabilonese e la centrale «terroristica» dei servizi iracheni, piuttosto attivi un po' in tutto il Medio Oriente. E' andata diversamente. A Beirut corre una voce certamente maligna: così come i vari Paesi alleati sono stati preavvisati dagli americani, anche Saddam è stato avvisato del raid. «Non si sa bene da chi ma in tempo». Così l'ha sfangata ancora una volta e una volta ancora potrà servirsi dei missili americani per distrarre il suo disgraziato popolo dalle piaghe che lo affliggono, per presentarsi agli infiniti milioni di diseredati che formano le cosiddette masse arabe alla stregua d'un nuovo Saladino. Converrà qui ripetere che alle sterminate legioni di frustrati che nell'odio verso Dar al Harb, il mondo degli infedeli, cercano il riscatto, la «rivincita della storia», poco importa che Saddam abbia stuprato un «Paese fratello», il Kuwait. Quel che conta per il lumpenproletariat arabo è che il macellaio di Baghdad abbia osato, e osi, sfidare gli infedeli e per la prima volta dal 1948 abbia bombardato gli israeliani. A Gerusalemme. «Che Saddam vinca o perda la guerra, in ogni caso gli arabi ne usciranno vincitori giacché avranno finalmente vinto la paura dell'Occidente onnipotente», scrisse nel gennaio del 1991 un autorevole giornale algerino. Sicché pensammo in molti che dopo quella del Golfo sarebbe cominciata la «vera guerra». Quella che l'Occidente avrebbe dovuto assolutamente vincere per non subire un futuro amaro: la guerra della ragione contro l'odio. Le cose sono andate, vanno in modo diverso. Il polline dell'odio continua a vorticare dal Golfo al Potomac e nessuno sembra rendersi conto che il terrorismo di Stato va combattuto con forza e con la forza ma nel segno della giustizia e soprattutto nel rispetto degli innocenti. Certo è ignobile - e non stentiamo a crederlo- -, che Saddam abbia voluto uccidere Bush epperò sembra lecito domandarsi cosa mai avesse inteso fare il Presidente wasp quando durante la guerra del Golfo bombardò il bunker «pocc intelligente» per far fuori Saddam che «doveva» trovarsi lì dentro. E in precedenza quando, in piena notte, bombardò l'alloggio privato di Gheddafi, nel 1986. Costui deve all'imprecisione dei piloti americani la sua salvezza, quella di sua moglie, dei figli. Solo una figlioletta adottiva del raìss libico rimase uccisa dalle macerie della casa colpita sì ma non centrata. Piuttosto che invocare l'articolo 51 della carta delle Nazioni Unite, ridotto oramai a una pelle di zigrino tirato come viene da tutte le parti, le cancellerie occidentali farebbero bene a riflette¬ re sulle dichiarazioni del ministro degli Esteri dell'Egitto fatte, poi, proprie dalla Lega araba: «... il ricorso alla forza senza una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, responsabile della legittimità internazionale, è incompatibile con l'idea di un nuovo ordine mondiale fondato sul rispetto del diritto internazionale». Di più: insistendo sulla assurdità della politica dei due pesi e due misure, la Lega araba «attira l'attenzione della comunità internazionale sulle pratiche israeliane nei territori e sui crimini dei serbi in Bosnia-Erzegovina». Se la Lega araba che al tempo dell'invasione del Kuwait si sdraiò sugli americani (perfino Assad si incartò nella bandiera a stelle e strisce) adopera oggi un simile linguaggio è segno che la credibilità americana è in calo dopo il raid su Baghdad. Tom Payne nel suo «Common Sense» ha scritto due secoli fa che un Paese per essere forte e rispettato non ha bisogno di eroi ma di uomini di buon senso. Anziché flettere i muscoli come il suo predecessore, il Presidente del cambia¬ mento, Clinton, dovrebbe con un po' di buon senso rassegnarsi all'idea che nel mondo c'è bisogno dell'America. Non dell'Americagendarme o, peggio, bounty killer, bensì dell'America della grande crociata contro il nazismo, dell'America paladina dell'anticolonialismo. Dalla Bosnia alla Somalia passando per il Medio Oriente, c'è bisogno dell'America. E' stato scritto che quel che accomuna le masse arabe è la miseria e Maometto. Se aggiungiamo la Palestina alla fame e all'Islam, avremo la miscela d'una spaventosa bomba a tempo. Per disinnescarla torneranno utili artificieri coraggiosi e giusti. Ho sempre affermato che Saddam va castigato non fosse altro per aver impiccato legioni di ebrei e di «comunisti», per aver avvilito un popolo onesto, ma attenzione a non umiliare gli arabi. Azioni come quella di ieri umiliano gli arabi. Colui che qualcuno definì l'uomo-ponte tra il mondo arabo e l'Occidente è in realtà un terrorista professionale, temerario, innamorato di se stesso, paranoico. Sempre che un golpe non lo spenga (ma ci vorrebbe un Pisciotta iracheno per eliminarlo) Saddam continuerà a pretendere il ruolo di «grande vendicatore» dell'onore arabo. Che poi il suo senso dell'onore non coincida proprio col nostro ha scarsa importanza. Perché egli è forse tuttora il personaggio simbolo dell'abisso che divide due culture: quella cristiana, quella occidentale. Se non riusciremo a colmarlo, la pace, il benessere, il progresso diventeranno una tragica utopia. Qualcuno sostiene che gli americani hanno un solo maìtreà-penser: John Wayne. Se fosse vero sarebbe una tragedia poiché la questione mediorientale non è un western ma il terreno dove si giuoca la pace del mondo, l'avvenire dei nostri figli. Igor Man Ora Saddam potrà servirsi del blitz per distrarre il suo disgraziato popolo e ripresentarsi come il nuovo Saladino *J In alto, il dittatore iracheno Saddam Hussein A destra, il generale Norman Schwarzkopf, ex comandante delle truppe americane nel Golfo, con George Bush