Le profezie del deputato Sciascia di Luciano Genta
Raccolti gli interventi alla Camera dello scrittore, parlamentare radicale dal 79 all'83 Raccolti gli interventi alla Camera dello scrittore, parlamentare radicale dal 79 all'83 Le profezie del deputato Sciascia «Tutti i mali del Paese risiedono nel modo di governare» 1UTT0 ciò che in questo paese è ingovernabile, eversione e criminalità principalmente incluse, risiede nel modo di governare»: una denuncia della nostra classe dirigente oggi al capolinea, lapidaria e profetica. La pronunciò alla Camera Leonardo Sciascia, il 10 agosto '79, mentre si insediava il primo governo della Vili legislatura, guidato da Francesco Cossiga. Lo scrittore siciliano era stato eletto deputato nelle liste del partito radicale: i suoi interventi parlamentari, fino all'83, stanno per uscire sulla rivista Euros, a leggerli oggi confermano non solo la scomoda intransigenza dell'uomo ma la tagliente lungimiranza del politico. Un politico, per molti versi, malgré soi: la politica, disse sempre, gli costava «fatica e sofferenza», eppure era capace di viverla solo «come un servizio». Anni ancora infuocati, di piombo e di scandali: trafitti di cadaveri (da Guido Rossa e il giudice Alessandrini, vttime Br, a Dalla Chiesa), di processi (Tanassi - Lockheed), di misteri tuttora irrisolti (il rapimento Cirillo, l'impiccagione di Calvi, la P2 di Gelli, e, macigno più pesante di tutti, l'affaire Moro). In mezzo, un Palazzo nella palude del quadripartito, dopo l'unità nazionale e prima del craxismo. Fedele al suo stile di scrittore, il deputato Sciascia parla un linguaggio conciso e concreto, sferzante. Esercitando in primo luogo il dovere del dubbio. Quel 10 agosto '79 accenna alla scomparsa di Sindona, si domanda «se non sia collegabile all'assassinio dell'avvocato Ambrosoli», conclu¬ de: «In questo caso si potrebbe anche cominciare a parlare, invece che di mafia americana, o sicula, o siculo-americana, di mafia romana. E' un semplice sospetto». Il 26 febbraio '80 prosegue: «Si evince che i marescialli dei carabinieri ed i marescialli di pubblica sicurezza quasi sempre hanno fatto il loro dovere, ma è più in alto che non si è fatto quel che si doveva fare». E indica il cuore della malapianta da estirpare: «l'illecito arricchimento». Di interlocutori e avversari aveva il massimo rispetto, ma pretendeva il rigore della verità. Il 23 luglio '80, quando si discuteva la messa in stato d'accusa di Cossiga per aver favorito il figlio di Donat-Cattin, Marco, terrorista di Prima Linea, affermò il primato della coscienza, distingueva tra responsabilità giuridica e colpa politica: a Cossiga faceva credito di «intelligenza e accortezza» e proprio per questo, pur votando per l'archiviazione, «faceva voti per le sue dimissioni» da presidente del Consiglio. Questa priorità dell'etica, «fuoco all'anima», ispira tutti i discorsi, di cui anticipiamo qui sotto alcuni stralci sulle prime accuse di corruzione all'entourage andreottiano (i casi Pecorelli e Evangelisti-Caltagirone). Era quel fuoco a fargli antivedere il tarlo della democrazia, la vergogna partitocratica. Le sue parole restano, come i suoi libri, «a futura memoria»: lette oggi, davvero «una storia semplice». Ma, per noi, piena di rimorsi. Luciano Genta Francesco Cossiga Sotto, Leonardo Sciascia: la politica, diceva sempre, gli costava «fatica e sofferenza»
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