In fumo la santabarbara del principe Hissa Hugas

In fumo la santabarbara del principe Hissa Hugas In fumo la santabarbara del principe Hissa Hugas CON I PARA' A CACCIA DB ARME BULUMBALE I L principe Hissa Hugas H Abdullah scuote la testa sconsolato, borbotta che gli italiani questo sgambetto proprio non dovevano farlo, a lui che da sempre era stato loro amico. Un botto tremendo: quattro carri armati trasformati in ferraglia da sfasciamacchine assieme a centinaia di razzi e proiettili inceneriti dalle cariche esplosive. E poi la figuraccia dinanzi ai suoi. Tutto quel ben di Dio, di armi ammassate nella savana a garantire la sicurezza della tribù che se ne vanno ad Allah dinanzi agli occhi della gente. Un attimo prima erano in bella mostra sul terreno rossastro della boscaglia, nascosti da eucalipti ed acacie, ora sono finiti in fumo nella nuvola grigia a forma di minifungo atomico che si leva verso il cielo. Il piccolo dramma del principe si consuma qui in un buco sperduto dello Hiran, la regione che a soli venti chilometri più ad Ovest confina con l'Ogaden etiopico. Ci troviamo ai margini estremi nella zona di controllo italiana, Mogadiscio dista oltre 400 chilometri ed è un altro mondo, un'altra Somalia. Nella capitale si vive l'angoscia quotidiana del proiettile assassino che ti sibila sulla testa mentre a Bulumbale la calma piatta del bush tropicale distende i nervi. Fino a ieri, fino a quando l'elicottero Ch-47 Chinook a due rotori ha portato qui in volo alcuni ufficiali italiani, tedeschi e nigeriani. Tanta pompa magna per addolcire la pillola della decisione perentoria adottata dai signori in divisa di Unosom. Che senza guardare in faccia a nessuna delle fazioni dell'area, a costo di rompere il faticoso equilibrio costruito in mesi di estenuanti trattative, i depositi delle armi sequestrate nei rastrellamenti andavano distrutti. Hissa Hugas è un notabile marehan, il sottoclan dell'etnia darod che si riconosce nell'ex dittatore Siad Barre. Nello Hiran, come altrove in Somalia, l'appartenente tribale regola ogni aspetto della società scomponendo alleanze con la velocità del vento. Ed i marehan da anni avevano saltato il fosso abbandonando il sanguinario boss di Mogadiscio ancora prima dello scoppio della guerra civile per confluire nelle file del Somali National Front al comando di Omar Haji. Adesso si sono avvicinati all'attuale presidente ad interim Ali Mahdi. Giorni fa reparti della Folgore dislocati a Buio Burti ed a Belet Uen avevano fatto brillare le santebarbare degli haber gradir, nemici giurati del principe, e lui si era fregato le mani dalla gioia. «Ci avevano tolto una spina dal fianco: quelle armi costituivano una minaccia alla nostra tranquillità, temevamo che una volta partiti i contigenti multinazionali sarebbe ripresa la lotta fratricida che ci dilania da due anni». Ora i paracadutisti di Italfor sono tornati con la ferale notizia: tocca a voi. «All'inizio non volevo credere alle mie orecchie, la cosa mi pareva ingiusta. Poi mi sono reso conto che il sacrificio andava eseguito in nome del traguardo della pacificazione futura, che anche a noi toccava contribuire al disarmo collettivo, l'unica via in grado di riportare la normalità nel Paese». Ma non è stato facile convincere la sua gente. All'assemblea dei capivillaggio molti maggiorenti non ne volevano sentirne parlare, hanno fatto la voce grossa, pretendevano di salvare il salvabile. A ripetizione sono intervenuti il generale Bruno Loi e il colonnello Roberto Martinelli. Guardate, hanno detto, quella ferraglia è inservibile, nemmeno i tecnici più geniali saprebbero riattivare i due carri armati ex sovietici T-34 e T-55 e la coppia degli M-47 italiani affidati decenni addietro all'esercito somalo. Sono da buttare, vi facciamo un favore a distruggerli. E lo stesso discorso andava applicato ai razzi anticarro Rpg ed ai proiettili da 106, in tutto 250 chili di tritolo, ammassati in una buca con l'innesco già pronto costituito da decine di mine «made in Urss» che i nostri avevano individuato nelle vicinanze con i metal detectors. Alla fine ci si è messo di mezzo il generale Hashi Gannì, ex allievo dell'Accademia di Modena, adesso comandante militare del¬ lo Snf. «Gettiamo insieme il seme del futuro. Oggi distruggiamo, domani ricostruiremo e sono certo che l'Italia continuerà ad aiutarci» e Loi può ringraziare i marehan. «Avete compiuto un gesto magnifico, ve ne siamo grati». Ok, fuoco alle micce. Il boato scuote il pomeriggio afoso, spacca le orecchie e l'onda d'urto lancia in volo centinaia di marabù, gli uccellacci neri mangia¬ tori di carogne. Anche oggi sono rimasti a corto di cibo. Il biennio della tragedia somala, oltre a provocare almeno 350 mila morti, ha decimato atrocemente il patrimonio zootecnico della nazione. Sono svaniti negli stomaci affamati di migliaia di poveracci tagliati fuori dai rifornimenti alimentari della capitale gli ippopotami che sguazzavano nello Uebi Scebeli, adesso gonfio con la stagione delle piogge, e con loro branchi di leoni, gazzelle, antilopi. Gli unici ad averla scampata sono i facoceri, i maialini del deserto intoccabili per i musulmani. Con lo scoppio sono usciti dalla sterpaglia a correre in tondo spaventatissimi. Però c'è già chi prevede che finiranno in padella se i convogli degli aiuti umanitari ridotti al contagocce non riprenderanno presto ad arrancare sulla strada imperiale che dai tempi di Mussolini si snoda da Mogadiscio verso Asmara tagliando a metà lo Hiran. La chiamano la via della miseria, e hanno ragione. Piero de Garzarolli

Persone citate: Ali Mahdi, Bruno Loi, Burti, Hashi Gannì, Loi, Mussolini, Omar Haji, Piero De Garzarolli, Roberto Martinelli, Siad Barre