Tutti in rima come prima

Cantautori, pubblicitari, politici e innamorati: un manuale vi salverà Cantautori, pubblicitari, politici e innamorati: un manuale vi salverà Tutti in rima, come prima Torna l'antica arte, sempre più attuale RIAPPARE in libreria, dopo un'assenza di decenni, una specie che si credeva estinta, il Rimario. Ma co me, ne esistono ancora? La nostra cultura, insofferente delle regole, dopo la retorica stava per liquidare persino la grammatica, figuriamoci il rimario. Era uno strumento di altri tempi, come l'arcolaio e lo scaldino, gli ultimi appassionati potevano sperare di trovarlo solo nei mercatini delle pulci, fra la lampada ad acetilene e il grammofono a tromba. Invece, eccolo qui, il nuovissimo Rimario della lingua italiana Vallardi, nella sua bella veste plastificata, con la presentazione di Stefano Bartezzaghi; e 70 mila parole, divise in 3500 rime. «Per enigmisti copywriters parolieri cantautori poeti comici pubblicitari linguisti», annuncia in copertina. Non è l'unico, di questa sorprendente renaissance. Tre anni fa era uscito un altro Rimario da Rizzoli, a cura di Emilio Renzi, con 60 mila parole. Anche questo destinato a tutte le nuove categorie prodotte dalla società della comunicazione, più due, eterne: le innamorate e gli innamorati. Servono davvero a qualcuno, questi repertori? Gli editori sono fiduciosi, le tirature consistenti. Evidentemente esiste un pubblico, che credevamo perduto e si riaffaccia oggi, magari con altro spirito. Per secoli la rima ha governato il lavoro di aedi su commissione, sonettisti per ricorrenza, innografi di palazzo, professionisti del lapicedio, rapsodi di fidanzamenti, sposalizi e nascite. Girolamo Ruscelli, che compilò un famoso Rimario nel Cinquecento, fu per tre secoli l'Artusi di quelle cucine. «Ti citano il rimario del Ruscelli / come farebbe un Turco l'Alcorano / e ne san quanto i gufi e i falimbelli», scriveva il Parini, in una satira contro i «somaroni» della poesia. Ma il rimario continuò a essere utilizzato. Ancora negli Anni 30 del Novecento, Nizza e Morbelli, autori delle prime riviste radiofoniche, confessavano di farvi ricorso. «Sfoglia sfoglia sul rimarius / cerca cerca rime in arius», scrivevano nel 1937 per il centenario di Stradivarius; che es- sendo «tra i liutai del circondarius / il più abile, il più varius / fece tutto un campionarius / di violin straordinarius». E giù, 54 versi in ottonarius - tutti sulla stessa rima. I poeti, si dice, hanno abbandonato da tempo questa compagna un po' ingombrante, e per molti fastidiosa, che faceva scrivere a Montale «Le rime sono più noiose delle / dame di San Vincenzo... / Il poeta decente le allontana / le nasconde, bara, Tenta / il contrabbando...». Ma non è mica così vero. I poeti sanno che la rima può essere uno strumento espressivo personalissimo, se possono coniarla in proprio. Da quando Dante ha fatto rimare «oncia» con «non ci ha», hanno tentato tutte le infrazioni alla regola. Montale per primo, che ha inventato rime bellissime, sfuggenti a ogni rimario, come «fa-lòtco - vedrò»; le nasconde al centro del verso, a metà della parola, ci gioca in continuazione. Usano la rima, fingendo di ignorarla, Caproni e Zanzotto, Fortini e Sanguineti. La dama di San Vincenzo era venuta a tentare, negli ultimi anni, anche Primo Levi, che ne aveva teorizzato l'importanza, in un articolo su La Stampa il 26 marzo 1985: «Il vincolo della rima obbliga il poeta all'imprevedibile - aveva scritto -, lo forza a inventare, a trovare; ad arricchire il suo lessico con termini inusitati; a torcere la sua sintassi; insomma, ad innovare». Per questo, scriveva l'autore di Ad ora in¬ certa, «spero in un ritorno dalla rima; anzi, lo prevedo prossimo». La storia darà forse ragione a Primo Levi, in futuro, per la poesia. La cronaca gli dà ragione subito, per la lima: tornata in auge con il linguaggio della pubblicità, la satira, il cabaret, soprattutto il gioco. I rimatori di oggi sono i grandi giocatori della parola, da Toti Scialoja (autore di poesie dove il senso si sfarina, ma la rima si rapprende sempre) a Umberto Eco, che è riuscito a mettere in rima l'intera storia della filosofia. Nella premessa al nuovo rimario, Bartezzaghi ricorda che al gioco la rima è necessaria. Per il menù dell'enigmista è una spezia prelibata, a patto che sia ardua. E' un'arrampicata libera, che moltiplica i vincoli. Le rime più gustose sono le sdrucciole, perché rare; e meglio ancora le bisdrucciole, perché rarissime. Arrigo Boito ha voluto infrangere tutte le colonne d'Ercole, tentando le quadrisdrucciole, in un esercizio da ca- pogiro: «Sì crudo è il gelo che le rime sdrucciolanosene / lungo la carta ovvero rincantùcciolanosene. / Le gocciole d'inclùostro stalattìtificanomisi / sopra la penna, ovvero stalagmìtificanomisi». Nessuno, da cento anni, è riuscito a superarlo. E gli autori di canzoni? Fino a non troppi anni fa la rima era per loro tanto indispensabile, quanto ovvia. I due terzi dei testi scritti nella prima metà del Novecento ruotano intorno a poche decine di rime, quasi sempre con le stesse parole. Per far combaciare «fiorin fiorello» con «l'amore è bello» l'autore di quella disarmante canzonetta non ha certo avuto bisogno del rimario. Ma quando Fabrizio De Andre, in Via del Campo, fa rimare «rugiada» con «strada», inventa un'espressione nuova: perché la rugiada richiama i campi veri, un sogno impossibile, e la strada è proprio quella, dove le donne sono proprio di strada. Il colpo di genio è quello di Paolo Conte, che va a cercare una rima per Bartali. Il nome Bartali non può avere una rima, non si dà in natura. Però, nella canzone, c'è. E' «sandali». Fra Bartali e sandali c'è un'assonanza sdrucciola, che rimanda gli stessi suoni. Lo scarto è minimo, fra una «t» e una «d»; ma è essenziale al significato, perché le due parole, che richiamano entrambe la fatica della strada, devono suggerire la differenza della velocità. La rima è l'ancella della memoria e la memoria trasforma la parola in messaggio. Non è un caso che, fra gli autori musicali delle ultime generazioni, abbiano insistito sulla rima soprattutto i più politicizzati, quelli che volevano dare al loro testo la fora dell'arringa. Morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei non si capisce senza la rima. E così Contessa di Paolo Pietrangeli. E tante canzoni di Dalla, di Guerini, di Bennato. Non si capiscono, senza rima, gli slogan dei cortei. E' la pubblicità tradotta in politica, saltando tutte le mediazioni: pochissime parole, facili, purché rimanti. Da «Lotta dura senza paura» a «Ucci ucci ci mangiamo la Falcucci», fino a «Roma ladrona la Lega non perdona». Nessuno sa chi inventa questi couplets, si accendono come fiammiferi casuali e incendia. no una città. Chissà se gli autori hanno mai preso in mano un rimario. Giorgio Calcagno Fra letteratura e cortei, così si gioca con le parole ndré. fgrtrd esc tanti e 9S>: jàoc' rf-kredf LesdxBze, es vannini A fianco, Fabrizio De André. A sinistra Paolo Conte. Sotto, Eugenio Montale Paolo Conte, il genio tra Bartali e i sandali Primo Levi sperava in un ritomo della rima, lo «prevedeva prossimo»

Luoghi citati: Nizza, Reggio Emilia, Roma