CON TADINI CELINE A MILANO di Alessandro Baricco

CON TADINI CELINE A MILANO CON TADINI CELINE A MILANO La narrativa italiana è schiava deWIo « » Secondo lei da dove arriva, questa piccola lingua mediocre? Dalla scuola, dalle indigestioni di Manzoni? «Magari. Manzoni aveva un'arte delle pause... dei tempi...». E allora da dove? «Non so... forse Gli indifferenti... In quel libro Moravia usava una lingua così rigorosa, così nitidamente aderente al reale... una lingua asciutta e bruciaticcia... insomma, un segno lo ha lasciato. E per progressivi svilimenti si è arrivati a questa nostra piccola lingua mediocre». Si vede che lo affascina questo tormentone della lingua. Ci rimarrebbe su per ore. «Sa chi ha davvero fatto qualcosa per reinventare la lingua del narrare? Non i narratori: i poeti. Loro sì. L'ultimo Montale, per esempio, con quell'irrompere del parlato, del tono basso... Sì, i poeti sono quelli che hanno provato davvero a schiodare la lingua dalla mediocrità, a farla vagabondare un po' da tutte le parti... Montale, Giudici... e Cucchi, Santagostini, Raboni...». Mi piacerebbe chiedergli di Calvino. Ma lui è ancora laggiù, tra i poeti. «E Dante? Pensi alla lingua di Dante: c'è tutto. Tutto. Petrarca, i petrarchismi: quella è già lingua letteraria, confezionata. Ma Dante...». Scusi, ma, per tornare ai narratori, Calvino in questa storia della lingua come c'entra? «L'ultimo Calvino mi pare che cercasse una lingua per così dire scientifica, con dentro un potere di astrazione scientifica... però era troppo poeta per rimanere chiuso in una lingua come quella. In un certo senso mi sembra che abbia finito per confutarsi da sé». Forse siamo tutti orfani di un Celine italiano. «Già, Celine». Già, Celine. Se uno legge La tempesta ci ritrova proprio la petite musique di Celine, dap- pertutto, un omaggio incondizionato a quella rivoluzione della lingua, una mimesi così perfetta da lasciare di stucco, in certe pagine. Mai letto un céliniano come Tadini. «Ma il Celine davvero grande è l'ultimo. Non il Viaggio, non Morte a credito. Il Celine della trilogia finale, quello è straordinario...». Per capirsi è il Celine della lingua definitivamente esplosa, pagine e pagine in cui non riconosci neanche di cosa sta parlando, ma intanto fortunali di parole ti tengono inchiodato alla pagina, e nel buio del senso immagini come fulmini ti marchiano l'immaginazione. Più che una rivoluzione, una deflagrazione. Uno stupro in grande. Ma allora, scusi, se è quella violenza linguistica estrema che la affascina, perché nella Tempesta s'è fermato a metà del guado, su una lingua tutto sommato ancora prudente, più vicina al Celine del Viaggio che a quello dei deliri finali? Emilio Tadini: pittore e scrittore finalista allo Strega con «La tempesta» Si risistema sulla sua sedia da dentista, Tadini. «In mezzo al guado... forse è che quello è il mio posto... per adesso. C'è un certo macchinoso illuminismo che mi spinge a frenare... non so, per il momento ho bisogno di restare legato a una lingua sorvegliata, controllata... uso una specie di sarcasmo basso perché mi sembra l'unico modo di permettersi di tanto in tanto delle radicali impennate... D'altronde è lunga la strada per arrivare a una liberazione totale della lingua... non so. Io credo... credo che nei miei libri ci sia un'allusione a quella libertà... e per il momento è quello che mi posso permettere. Forse che ci possiamo permettere, tutti». E la storia? Voglio dire, la storia che ha raccontato nella Tempesta? Cosa le piace in quella vicenda di un uomo che si costruisce addosso una casa anestetizzante per assorbire la catastrofe della sua vita? «Mi piace questo aspetto di bricolage... lui che ricicla un po' tutto e si costruisce quella casa... e poi l'idea che in questo deserto, mentre tutti i valori sfumano ad ombre, quel che rimane di reale, di certo, sono gli affetti, solo gli affetti». Molti dicono che è troppo lungo, La tempesta, che qualche sforbiciata non gli avrebbe fatto male. Sorride, lui. «Forse sarà così. Ma a me sembrava lungo giusto. E' il suo respiro... no, a dire il vero, non taglierei proprio niente». Poi dice tante altre cose, Tadini. Che il suo scrivere è forse più figlio del cinema e della poesia che della narrativa. Che Salinger è grande, ma l'America per lui è Faulkner. Che le ultime cose davvero belle che ha letto erano di Del Buono e Elkann. Che bisognerebbe leggere Tessa. Che a lui piace tanto leggere Hrabal. E alla fine si arriva all'Italia che non legge, che non vuole leggere, che non leggerà mai. Ma lei, della Tempesta, quante copie pensa di vendere? Domanda da non fare, agli scrittori. Però lui risponde. Ridendo, ma risponde. «Sarebbe bello arrivare alle 20.000 copie». Non le sembrano, a ben pensarci, pochissime? «Il popolo dei lettori è quello che è». Colpa degli scrittori? «Non credo». Degli editori? «Gli editori pubblicano molto se no le loro macchine non stanno in piedi. E pubblicando molto è inevitabile che brucino un po' troppo presto i libri». E i critici? «Mah... una recensione è quello che è, una cosa veloce, è giusto che sia così...». Lui comunque non sembra prendersela più di tanto. «Forse avessi fatto solo lo scrittore mi arrabbierei di più... ma dipingo, io... Sa, è bello dipingere, perché è anche una fatica fisica, ti rimane addosso, non è come lo scrivere che magari passi una giornata, non concludi niente e anche addosso non ti rimane nulla...». Quelle specie di Pinocchio continuano a passeggiare su città gialle e allegre. C'è da chiedersi chi glielo faccia fare, di scrivere, mestiere solitario e un po' ammalato. «Il fatto è che se ti succede qualcosa... se immagini o vedi qualcosa di emozionante, subito dopo l'emozione più grande è correre a raccontare tutto a qualcuno. Proprio quello: correre dal primo che trovi e raccontargli tutto. Ed è quella cosa lì, scrivere, no?». Alessandro Baricco

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