CELINE A MILANO
tuttolibri LA STAMPA Giugno 1993 Quale idea di letteratura hanno i nostri scrittori? Alessandro Baricco lo ha chiesto ai cinque finalisti del Premio Strega. Il primo incontro è con Emilio Tadini. SMILANO E ne sta seduto su una sgualcita sedia da dentista, Emilio Tadini, con quella sua faccia un po' di pietra e un po' dolcissima, che sembra uscita da un film hollywoodiano in bianco e nero. Tutt'intorno, il suo studio di pittore. Sulle tele appoggiate alle pareti, strani burattini passeggiano su città sghembe, affogati in colori senza tristezza. Hanno la testa tonda tonda, tipo Pinocchio. Tranquillizzante sensazione di sentirsi paracadutati tra due pagine di un Corrierino dei Piccoli. L'argomento sarebbe la narrativa italiana, gli dico. Proviamo? «Proviamo». Qualcosa è successo, di importante, in questi ultimi anni? «Mah, a me sembra che dopo Gadda non sia più successo nulla. Niente di davvero nuovo, che abbia modificato le rotte del nostro modo di narrare». Non le sembra un po' strano, o un po' mortificante? «Succede... è come per lo sci, o il tennis... passano anni e non viene fuori nessuno...». Proprio nessuno? «Forse... forse Volponi... lui qualcosa di nuovo l'ha portato... Quel suo modo di conciliare la fedeltà al reale e il gusto per un atteggiamento visionario... In realtà, sa qual è il punto?». Me lo dica lei. E lui parte, ma non con la supponenza di quello che ha capito tutto. Con la pazienza di uno che cerca di capire. «Il punto è che in Italia si è rimasti inchiodati a una letteratura dell'io. Esiste solo l'io e il tu. Io e mio padre, io e il partner, io e... il "loro" non esiste. Voglio dire, bisognerebbe ogni tanto provare a raccontare il mondo di fuori. Non per ripescare a tutti i costi la letteratura "impegnata", però una certa capacità di leggere il complesso delle cose, dei fatti... E poi, c'è il problema della lingua. Ecco, questo, in realtà è il punto davvero centrale. La lingua. Gli scrittori italiani pensano che ce ne sia una già bell'e pronta, posata lì, da prendere e basta. Una lingua un po' sciatta, che non si mette in discussione. Una lingua piccolo borghese, tutta bella infarcita di buona educazione letteraria. Uno strumento da usare: un piccolo strumento medio, buona per qualsiasi uso». LMILANO A prima, inossidabile storia, è lui, Antonio Moresco, esordiente da Bollati Boringhieri con tre racconti, Clandestinità (pp. 163, L. 23.000). Nato a Mantova nel 1947, da una quindicina d'anni vive nella letteratura, per la letteratura, con la letteratura. La mattina scrive, il pomeriggio legge (ora è su Faulkner), di tanto in tanto invia le sue pagine d'acciaio agli editori, un po' a tutti, adunando stroncature o granitici mutismi. «Ci sarebbe di che smarrire il senno - sembra quasi scusarsi a futura memoria -. Ma finora ho evitato il baratro, sono sempre riuscito a purificarmi, a scavalcare il muro delle incomprensioni». Non vi è spocchia o rancore, neppure un alito, in Antonio Moresco, irregolare da sempre. Gli studi, ad esempio: «Ricordo come un incubo il liceo scientifico: una disfatta, ero continuamente fuori tema, seguivo orbite privatissime. Al pezzo di carta - abilitazione magistrale - sono arrivato in maniera rocambolesca». Nel viso un'eco di Franco Battiate fisico tuttolibri
Persone citate: Alessandro Baricco, Antonio Moresco, Bollati Boringhieri, Emilio Tadini, Faulkner, Gadda, Volponi
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