l'Anselmi e la donna che lavora di Simonetta Robiony

Su Raitre Su Raitre l'Anselmi e la donna che lavora ROMA. Per il suo debutto nel ruolo di conduttrice Tina Anselmi ha scelto una camicia celeste con una sciarpetta, un po' alla Thatcher ma certamente consona al tono prudente, quasi lieve con cui ha voluto fare i suoi interventi di raccordo nel programma «La donna che lavora 1958-1993» che la terza rete propone per sette puntate, a partire da sabato prossimo, in seconda serata. Una la principale preoccupazione per le donne di oggi segnalata dalla Anselmi: la mancata tutela della maternità tornata di prepotenza con l'imposizione, sempre più frequente, all'atto dell'assunzione, di lettere di licenziamento firmate in bianco, in caso di gravidanza. Tina Anselmi, ex staffetta partigiana, e poi ex insegnante, ex sindacalista, ex ministro del Lavoro e adesso presidente della Commissione pari opportunità, è certamente una che ha seguito con attenzione l'evolversi della condizione femminile, nelle legge, ma anche nella società. In più è molto amata: dai cattolici ma anche dai laici perché è schietta, parla chiaro, ha frequentato meno degli altri correnti e sottocorrenti democristiane. Convincerla ad assumere questo ruolo televisivo è stato facilissimo anche se, in palcoscenico, c'è stata una sola volta, da ragazza, in una filodrammatica, e si prese pure due schiaffi dal capocomico perché s'era levata il trucco dalla faccia sentendosi a disagio. Ma questa era un'occasione speciale. «La donna che lavora» è un programma storico della Rai. Lo girarono andandosene per l'Italia con una troupe cinematografica, dotata di macchina da prese e carrello, luci e gruppo elettrogeno, bugie per entrare sui luoghi di lavoro e bugie per fare le interviste, gli allora ancora giovani Ugo Zatterin e Giovanni Salvi, nel lontano, lontanissimo, '58. Era quello in cui Miranda Martino cantava la bellissima sigla <A casa tornerò» che solo a risentirla da ancora un brivido perché parla di fatica fìsica e fatica morale, cuori spaccati tra il bisogno di guadagnare e quello di amare, giornate lunghe nelle quali al lavoro fuori casa si sommava sempre anche quello dentro, in una catena di doveri. Fu un programma eversivo, combattuto dai dirigenti della Rai di allora che non lo volevano mandare in onda. Se fu trasmesso, lo fu per l'intercessione di Benigno Zaccagnini, allora ministro del Lavoro nonché sinistra de, che lo giudicò encomiabile. Trentacinque anni dopo Raffaella Spaccarelli e Piero Farina hanno ripercorso l'Italia alla ricerca di quelle donne che allora con le loro facce e le loro storie avevano raccontato la condizione femminile nel dopoguerra: alcune sono morte, altre non hanno voluto parlare, ma quelle che hanno accettato lo hanno fatto con grande sincerità, e più parole di quante non ne avessero usate allora, perché la tv non fa più paura e non ci sono più padroni che potrebbero vendicarsi. Questa, però, non è un'inchiesta ma solo un confronto tra un ieri che appare remoto e un oggi che appare più ricco, o meno povero, ma certo più piatto, più medio, più banale. Anche perché, a svantaggio delle immagini a colori girate adesso con la telecamera, ci sono quelle straordinarie, in bianco e nero, da cinema neorealista, forti e commoventi, girate allora. Una stravaganza: Flora Favilla, allora ufficio stampa delle Acli, poi giornalista Rai, ha ricordato che pur avendo collaborato nel '58 al programma «La donna che lavora» con una attenta ricerca non ottenne di veder comparire la sua firma, forse perché anche in Rai, allora, la donna che lavorava era poco considerata. Simonetta Robiony

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