«Per noi profughi parole ma poca solidarietà» di Liliana Madeo

«Per noi profughi parole ma poca solidarietà» «Per noi profughi parole ma poca solidarietà» «Le truppe straniere che massacrano la nostramente se ne vadano» TRA I SOMALI D'ITALIA ■ROMA O venivo spesso in Italia. Andavo in alberghi belli, buoni ristoranti. Avevo una farmacia a Mogadiscio e viaggiavo spesso per acquistare medicinali, visitare industrie farmaceutiche. Ora la farmacia è bruciata, la mia casa distrutta, le macchine che avevo sono sparite. Tutta la mia famiglia è scappata. Chi in Kenya, chi nello Yemen. Io sono stata l'ultima ad andare via. Aspettavo. Aspettavo che le cose migliorassero. Poi ho capito che era inutile e due mesi fa sono partita. Pensavo: siamo stati una colonia italiana, siamo sempre stati amici, ci sono state tante parole di solidarietà. E invece l'Italia non ci dà niente. E noi ci siamo stancati di parole. Sì, facciamo manifestini, sit in, assemblee cittadine. Ma lo facciamo solo per non perdere la speranza». Inda è una somala di trent'anni, con bellissima dentatura, gran sorriso, la pelle rovinata. La sua casa adesso è una chiesa sconsacrata, sul lungomare Toscanelli di Ostia, dove due mesi fa i ragazzi di un centro sociale, «Spazio Ramino», insieme con somali, immigrati dal Pakistan e dalla Costa d'Avorio, hanno occupato una vecchia colonia estiva, la «Vittorio Emanuele III». Inda ha partecipato all'occupazione e, fino a pochi giorni fa, era l'unica donna. Dormiva con gli uomini nella chiesa tutta marmi bianchi e neri, sotto gli affreschi che corrono in alto fino alla volta dell'abside. «Per noi musulmani è uno scandalo, questa promiscuità. Ma la legge ignora la mancanza di possibili alternative» spiega, senza sensi di colpa. Si toglie il bel turbante che le avvolge il capo. Saluta le altre tre donne che da qualche settimana sono arrivate nell'ex colonia, tutte con problemi di casa e di lavoro, e spiega ai responsabili della comunità il senso della sua giornata: contatti con la Caritas per coordinare i pasti, raccolta di materassi e reti, lista dei turni di lavoro cui tutti devono partecipare. I locali occupati vanno dalla cappella al seminterrato, che è vastissimo, senza vetri e finestre, con immondizie accumulatesi negli anni. Si restaurano alcune stanze. Si fanno portelloni di sicurezza, per proteggersi dal rischio di at- tacchi: i naziskin hanno già fatto varie incursioni gettando contro l'edificio bottiglie, sassi. «Un attacco che ci aspettiamo da una notte all'altra», dicono i somali, che del gruppo sono la maggioranza. Nessuno può sottrarsi al proprio turno. Chi non lo fa, viene espulso. Già cinque se ne sono dovuti andare. In due mesi altri tre sono invece andati via felicemente: un piccolo cam¬ pionario appena di quel flusso che da mesi fa ripartire la gran massa dei somali che erano arrivati in Italia e poi, delusi per la mancanza di servizi di accoglienza, si sono diretti verso Paesi più ospitali, Svizzera, Olanda, Svezia, persino Finlandia. «Quelli che sono partiti per primi, hanno trovato casa, lavoro, assistenza legale e sanitaria, ci telefonano e richiamano pa¬ renti e amici», racconta Genesio, un somalo a Roma da sei mesi, con casa distrutta a Mogadiscio, una gran voglia di ritornare, moglie, un figlio, genitori e suoceri che attendono lui o una chiamata. «Ma io non ho niente da offrirgli. Non ho lavoro. Non ho casa. Veramente da loro non ho più ricevuto neanche una lettera. Non so neanche se sono vivi», aggiunge. La guerra che devasta le loro famiglie e il loro Paese è una presenza impellente. Tutti hanno lì parenti sotto il fuoco della guerra, attanagliati dalla fame e dalla paura. Maria, 32 anni, ha la storia più atroce: nel settembre del '91 ha perso in un bombardamento due suoi bambini, e non ha più avuto notizie del marito e di altri due figli. Said, «il santone» per la sua intensa religiosità, è il più amareggiato: per 10 anni aveva lavorato in Italia come operaio, era iscritto alla Cgil e al pei, poi - quando in Somalia sembrava che stesse per decollare la democrazia - era tornato a casa. E' laureato, nel suo Paese era direttore di un distretto sanitario. La guerra lo ha costretto a ripartire. Qui non ha trovato più né il pei né lavoro. Sotto la volta della chiesa ogni notte, alle 3, cerca consolazione nella preghiera. Nessuno di loro vuole schierarsi a favore de! generale Aidid 0 delle truppe Onu. «Ci interessa la pace. Vorremmo tornare a casa», dicono le donne. Le frantumazioni della comunità somala che si respirano a Roma, qui sembrano tenute lontane dall'impellenza dei bisogni primari. «Senza Aidid non tornerà mai la calma, neanche se mandassero tutti i soldati del mondo. Tutte le truppe straniere che massacrano il nostro popolo se ne devono andare», dice un economista somalo, Ersi Osman, seduto sui gradini di piazza Esedra, di fronte al bar Picarozzi dove tutti 1 pomeriggi si ritrovano gli «intellettuali» esuli, aderenti al Somalian National Army. «Aidid è un criminale e va catturato ad ogni costo. La forza multinazionale doveva disarmare subito le 15 fazioni in lotta, non aspettare sei mesi», ribatte Fatima Hagi Yassin, presidente della Comunità Somala. Liliana Madeo

Persone citate: Aidid, Fatima Hagi Yassin, Said, Vittorio Emanuele Iii