IL LAMENTO DI VIRGILIO di Barbara Spinelli

Anche Bossi prepara la sua squadra per la conquista di Roma, e circola il nome di Funari IL LAMENTO DI VIRGILIO rerebbe il profanatore secondo la vera ed esatta ragione?», chiede Leopardi. Non è illusorio, irragionevole, tutto quello che in genere facciamo per onorare i morti: la cura dei cadaveri, l'onore dei sepolcri, e quella che Virgilio chiamava pietas, rispetto degli antenati? Leopardi conclude che sì, è illusione credere nella sacralità dei sepolcri, nell'eternità del poeta. Ma che precisamente su queste illusioni si fonda la civiltà. Che precisamente questo è barbarie: la strage delle illusioni, in nome dell'«utile reale»; l'uomo che muore per sempre nella nostra memoria, una volta che la terra si chiude su di lui e il nostro occhio non lo vede più; l'uomo ridotto a mucchio di ossa e di pelle: deperibile, profanabile sostanza. Non vorrei trasformare i profanatori di Piedigrotta in geni del nichilismo, e non credo che abbiano pensato alcunché, mentre strappavano i fiori cari a Virgilio e buttavano immondizia sul suo monumento. La profanazione preferisco piuttosto vederla come un segno: come quando si legge nelle tragedie che è piovuto sangue improvvisamente in una contrada non distante. O quando si legge nelle Georgiche che d'un tratto «nell'oscurità della notte appaiono fantasmi paurosamente pallidi, e le bestie parlano, i fiumi s'arrestano, la terra si apre, e lacrima nei templi il mesto avorio e sudano i bronzi». Di questi segni i profanatori non sono che gli esecutori, i macchinari. Escutori ignari della storia che fanno vedere: dell'eversum saeclum, dell'evo sconvolto che è di nuovo tra noi, e che Virgilio vede nelle guerre civili di Roma, alla fine della Repubblica, quando «infranti i patti città vicine guerreggiano tra loro, e imperversa per tutto il mondo l'empio Marte (...) e il lecito si muta nell'illecito, e tante guerre per il mondo, e tante facce della scelleratezza, e nessun onore più riservato all'aratro». Di fronte a questo secolo: Virgilio, diritto e con parole chiare, sulla soglia dell'inferno. Esposto interamente al dolore, senza nessuna voglia di fuggirlo, di distogliere lo sguardo. Ma anzi fisso, lo sguardo, di fronte alle molteplici facce della scelleratezza, al durum genus che è il genere umano, alle guerre ingaggiate dagli uomini di Enea, necessariamente e insensatamente, «per vergogna e per ira». Accanto a Omero, cantore dei greci liberi, ci serve oggi più che mai il poeta latino, che descrive la pace senza più illusioni di Roma antica, e come fu fondata sul sangue e sulla tenacia, sulla vergogna e l'ira dei vinti troiani. Ci serve lui per vedere la caduta di Sarajevo-Troia, e le ipocrisie dei nostri giochi guerreschi in Somalia, dove ci mostriamo forti per nascondere le nostre più grandi debolezze. Ci serve lui per capire noi stessi: noi che abbiamo visto il genocidio dei musulmani, e già siamo spazientiti dal lamento dei superstiti, noi occidentali che creiamo città-Lager di morte e le chiamiamo «zone sicure». Che nel momento in cui capitoliamo di fronte a Milosevic gridiamo forte, come il minir' :o Andreatta: «Nell'embargo contro la Serbia dobbiamo avere una volontà tesa fino all'odio». Non era chiesto tanto, per difendere la Bosnia. Bastava un po' di ira, e soprattutto di vergogna. Se mi è consentito un consiglio al Pontefice, questo vorrei dargli qualora andasse a Sarajevo: che porti con sé Virgilio, aggredito a Piedigrotta. Virgilio ha già accompagnato un poeta, negli Inferi. Virgilio ha detto l'essenziale, sui vinti: che «unica loro salvezza, non sperare nessuna salvez¬ za»; che sunt lacrimae rerum son lacrime sulle vicende umane quel che si vede attorno; e che tuttavia vale la pena rimettersi in viaggio, divenire profughi portati da un fato {fato profugus) purché non si dimentichi nella fuga di portare Anchise sulle spalle e le statue dei Penati, la memoria del padre e degli antenati. Poeta dei vinti, Virgilio lo è anche delle nostre viltà: muore uno straniero, brucia un ospite in un ostello tedesco, ma ecco: «Assentirono tutti, e ciò che ognuno temeva per sé, tollerarono mutato nella rovina d'un solo infelice». Inutile invocare gli Dei, quando questi si ritraggono. Inutile tutta questa pressione sugli uomini, perché li amino di più e li implorino. Ma invece cominciare dall'altro verso, quello di Virgilio: «Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo» - se non posso piegare gli Altissimi, muoverò l'Acheronte, l'inferno. Comincerò così: con ima discesa verso il basso, verso il centro più malvagio del mondo, per poi risalire dal basso verso l'alto, sperando come Dante di riveder le stelle. Senza imboccare scorciatoie, senza divagazioni in oltremondi per disprezzo del mondo; senza nessun Waldgang, nessuna fuga nel bosco come Ernst Jùnger. E' il centro dell'Eneide - que¬ sto appello agli inferi -, ed è il centro d'ogni esistenza che vince il tedio di vivere, ma patendolo. Virgilio, la sua nostalgia d'Arcadia alle porte dell'Acheronte sono stati profanati a Piedigrotta. Ci si può consolare pensando che anche la testa di Orfeo, staccata dal collo marmoreo per mano delle Baccanti ingelosite, scivolando sull'Ebro continuava a invocare «Euridice! Ah misera Euridice!» mentre la vita fuggiva (Georgiche, 4). Ci si può consolare pensando all'esodo dei Troiani, così somigliante a quello di Mose che tenacemente - dopo la distruzione delle tavole della legge - si mette a riscriverle daccapo nel deserto (non è casuale, la voglia simultanea di profanare le tombe degli ebrei e di Virgilio; la memoria di Gerusalemme, e di Roma). Per parte mia tuttavia non so consolarmi. Penso al poeta-amico che hanno offeso, a Napoli affacciata sull'Averno che non gli è stata rifugio. Penso a Orazio, che supplicò la nave che trasportava l'amico carissimo dalla Grecia a Brindisi, e vorrei unirmi alla sua preghiera: vReddas incolumem precor - et serves animae dimidium meae» - «fa' che ritorni incolume ti prego serbami intatta la metà dell'anima mia». Barbara Spinelli

Persone citate: Altissimi, Andreatta, Ernst Jùnger, Milosevic, Troiani