Il dramma di essere sincero di Giulietto Chiesa

In quel clima infernale fu solo più fanatico di tutti Il dramma di essere sincero In quel clima infernale fu solo più fanatico di tutti IL PERSONAGGIO UN «COMUNISTA DI FERRO» PMOSCA AOLO Robotti, «comunista di ferro». La sua vera tragedia - sua come di migliaia di altri «quadri» comunisti - fu che non potè mai essere sincero. Neanche con se stesso. Neanche quando sentì il bisogno di «raccontare la verità». Il suo libro, scritto nel 1964, La prova, in cui descrisse i diciotto mesi passati tra le celle superaffollate della prigione della Taganka e le camere di interrogatorio e tortura della Lubianka, la sede della Nkvd, la polizia del regime, fu un documento sconvolgente per molti militanti comunisti. Un atto, allora, da eretico, da «fondamentalista» che non è disposto a compromessi. L'Unità lo stroncò, non era ancora venuto il tempo degli «strappi». Robotti stesso raccontò molto più tardi, in un'intervista a Arrigo Petacco, che Gian Carlo Pajetta lo aveva definito «un libro magnifico, che dovrebbero leggere tutti i membri della direzione del partito». Allusione a suo modo sarcastica, che lasciava trasparire un rimprovero: solo i membri della direzione avrebbero dovuto leggerlo. Pajetta era come Robotti. Pensava anche lui che «certe cose» non si dovevano dire. Le si doveva consegnare alla storia, in attesa della vittoria, quando la classe operaia avrebbe trionfato, quando avrebbe potuto finalmente governare non più accerchiata, quando avrebbe potuto «capire». Fino a quel momento ogni confessione di errori, di mostruosità, di debolezze, sarebbe stata nient'altro che un regalo al nemico. Cioè un tradimento nel pieno della battaglia. Eppure Paolo Robotti quel suo libro lo scrisse con intenzioni apologeti¬ che. Apologia del proprio eroismo - e in questo senso un tribunale proletario avrebbe potuto condannarlo davvero per «individualismo piccolo-borghese - ma anche apologia della «causa» alla quale egli dedicò la propria vita. Dalla sua memoria, pur così ricca di dettagli, delle riflessioni del momento, di «quel clima», emerge però soltanto la sua titanica certezza, la sua inflessibile resistenza, la sua fede senza incrinature. Forse, mentre scriveva, dev'essergli sorta la domanda se, per caso, qualcuno di quei suoi connazionali e compagni che aveva denunciato all'Nkvd, non fosse stato anche lui innocente. E ritenne opportuno operare un'altra censura, questa volta per difendere se stesso di fronte a un ipotetico tribunale della storia. Forse, più semplicemente, non gli passò nemmeno per la testa che quel problema fosse esistito. Li aveva criticati nelle drammatiche sedute di «autocoscienza», poi li aveva denunciati. «Un'operazione di controllo dal basso, molto efficace», scrisse molti anni dopo, senza il minimo accenno autocritico. All'inquirente - che egli disprezzava perché «poco preparato» - si limita a spiegare che «molti trotzkisti-bordighisti sono stati arrestati, dopo comunicazioni da parte mia». E' quanto emerge dai verbali dei suoi interrogatori, ritrovati da Didi Gnocchi negli archivi del Kgb. Ed è, apparentemente, quanto basta per definirlo senza esitazione, con il linguaggio di oggi, un «delatore». Se non che questa semplice definizione ci priva, per così dire, della complessità di «quel clima», che coinvolse tutti coloro che ebbero la sventura di respirarlo, di viverci dentro, prima per scelta, poi per necessità. Paolo Robotti fu soltanto più fanatico di tutti gli altri. E, a diffe¬ renza di molti altri, restò convinto che fosse giusto fare ciò che fece. Il delatore colpisce di nascosto, scaglia la pietra e nasconde la mano. Robotti scriveva tutto sul suo quadernetto nero. E nessuno di quelli che gli stavano intorno, anche allora se dobbiamo dare retta all'accorta dichiarazione di Germanetto - aveva dubbi sulla sua funzione d'informatore della polizia sovietica. Non ne doveva avere neppure Palmiro Togliatti quando, nell'aprile del 1940, tornò a Mosca dalla missione in Spagna e in Francia. Lo ricevette - secondo quanto raccontò lo stesso Robotti - «dietro la sua scrivania al Lux». «Caro Paolo gli disse - so che hai vissuto una bella avventura». «Bella non direi, sono stati molto pesanti», rispose Robotti. «Tu che ne pensi?», replicò Togliatti. «Penso che il 70 per cento degli arrestati è colpevole quanto lo sono io». Togliatti rimase in silenzio per qualche minuto e poi rispose: «Di questa faccenda dovremo ri¬ parlarne un giorno o l'altro». Ne riparlarono sedici anni dopo, quando il comitato centrale del pei venne riunito in stato di choc collettivo per discutere il famoso rapporto di Krusciov. Non ci fosse stato quello non ne avrebbero riparlato affatto. «Cosa voleva, che mi unissi anch'io alla canea fascista dei nemici dell'Unione Sovietica? Meglio tacere». Quello era «il clima». Per Robotti non era cambiato neppure nel 1982. In genere è impresa impervia penetrare nei meandri psicologici dell'uomo. Ma nel caso di Paolo Robotti tutto sembra di una semplicità sconcertante. Tutto ciò che egli ha fatto - pensa - è stato fatto per «il bene». Le tragedie individuali che ne scaturiscono sono «accidenti», insignificanti epifenomeni che la storia giustificherà come inevitabili. Dal dubbio Robotti viene sfiorato soltanto quando - assolutamente certo non solo della propria innocenza, ma anche dei propri «meriti» - si ritrova per¬ seguitato. Deve difendersi, esattamente come fece nelle carceri fasciste. Lo colpisce l'analogia, non l'assurdità. Non riesce a vedere la differenza: per i fascisti sapeva di essere «colpevole», doveva dunque mentire. Per i comunisti sapeva di essere «innocente», doveva dunque dire la verità. Ma gli si chiedeva di mentire, lo si torturava perché mentisse. Non capì mai • non poteva capire - che qualcosa di più grave e di più profondo di una «deformazione» del socialismo era accaduto in Russia. Non poteva perché non vedeva le cause della «doppia verità» che aveva paralizzato la sua ragione. Semplicemente «credeva». E a quel sacerdote che gli chiese come aveva potuto restare comunista, avendo visto ciò che aveva visto, avendo fatto ciò che aveva fatto, rispose: «E lei, dopo quel po' po' di crociate, di inquisizioni, di sangue versato, non è forse rimasto cattolico?». Giulietto Chiesa

Luoghi citati: Francia, Mosca, Russia, Spagna, Unione Sovietica